Rinnovamento, cinque pilastri per l'Italia

sabato 6 luglio 2013


Così come un organismo umano per poter vivere in salute necessita che tutti i suoi componenti costitutivi agiscano concordemente ed efficacemente ciascuno sovrintendendo alla sua funzione, del pari ogni organismo civile statuale ha bisogno che ciascuna struttura sia adeguatamente concepita per il suo corretto funzionamento. È di tutta evidenza che il susseguirsi dei processi politici, civili, scientifici e tecnologici, particolarmente accelerati nel secolo scorso e culminati nella cosiddetta globalizzazione, nel loro incessante quotidiano divenire, hanno mutato e stanno mutando profondamente il nostro mondo, in particolare l’Italia, erede di una rigida costruzione amministrativa di ottocentesca memoria limitante per una moderna operatività, di ostacolo per un sano sviluppo, e che inoltre, in presenza di feticci ideologici fatica non poco a rigenerarsi nel nuovo. È condizione necessaria per uno Stato e per una comunità di cittadini che vogliano competere in questo mondo globale non sottrarsi a cambiamenti, anche di forte o fortissimo impatto, se questi diventano funzionali a migliorare o quantomeno conservare la loro condizione di vita.

La condanna in assenza del rinnovamento è un inarrestabile declino. Per quanto riguarda l’Italia, un rinnovamento basilare si rende ormai ineludibile per la sua architettura amministrativa, una nuova costruzione con nuovi strumenti e nuove strutture necessarie a regolare i rapporti tra la vita dei cittadini in rapporto con lo Stato e lo Stato con essi, unitamente al territorio costituente il patrimonio comune. Nella sua articolazione attuale, obbediente a una Costituzione palesemente datata, lo Stato italiano si struttura sugli organismi centrali dello Stato, sulle Regioni, sulle Province, sui Comuni. Di recente costituzione le città metropolitane suddivise a loro volta in municipi. Un lungo elenco di altri organismi di contorno parimenti vincolanti, a volte intersecanti, per diposizioni e normative, i precedenti, rendono complessa e farraginosa ogni ipotesi di attività. L’esperienza dimostra che tale articolazione costituisce ormai un peso insopportabile per il singolo cittadino allo stesso modo che per le imprese; ciò a causa di funzioni sovrapposte, come si diceva a volte tra loro contrastanti, che impediscono trasparenza di leggi e regolamenti, peraltro di loro emanazione, a tutto danno di coloro che ne devono usufruire e a tutto danno per la collettività.

Inoltre, ed è storia di questi ultimi decenni, la loro esistenza ha fatto prosperare ogni tipo di corruzione, sia essa politica che criminale: componenti tra loro spesso associate. Da rilevare poi che alcune di queste istituzioni, come Province e Regioni, sono di fatto non rispondenti alla necessità, alla cultura e alla storia del popolo italiano che, fino dal 1200 circa, ha fondato la propria crescita, la propria indipendenza e autonomia, oltre che il suo Rinascimento, in virtù delle costituzioni dei Comuni. Le Province, introdotte nel XIX secolo, sono un portato napoleonico di stampo meramente amministrativo che nulla ha a che vedere con il territorio italiano e la sua realtà civile e territoriale. Una cosa è infatti suddividere un territorio per la più parte indifferenziato, come è la Francia o la Germania, per regolarne l’ amministrazione; altro è suddividere il territorio italiano senza cognizione e considerazione alcuna della sua essenza che, come ogni italiano ben sa, esprime differenze a volte sostanziali: a cominciare dalla sua morfologia. Analoga constatazione può essere fatta per le Regioni, volute in ossequio a una Carta Costituzionale che, se all’articolo 5 esalta al massimo le autonomie territoriali, nella successiva articolazione (Titolo V) si smentisce parzialmente istituendo le Regioni a loro volta disegnate in buona sostanza seguendo vecchi confini pre- risorgimentali.

Le Regioni quindi si rivelano non solo antitetiche rispetto organicità territoriali di tutta altra consistenza e conformazione, ma con la loro autonomia legislativa hanno contribuito non poco ad approfondire il solco della disuguaglianza e della non ancora raggiunta unità nazionale che si presenta oggi enormemente divaricata. Palesi esemplificazioni si rilevano nei settori della sanità, della scuola, delle infrastrutture che dimostrano i risultati fallimentari dovuti alle autonomie regionali. Di qui occorre modificare e rendere moderna al massimo la nostra architettura amministrativa. Ciò si può ottenere agendo contemporaneamente su due direttrici che prevedono da un lato, in successiva e celere progressione, la eliminazione sia delle province che delle regioni, e dall’altro il contemporaneo rafforzamento dei poteri e competenze dei comuni dopo averne ridisegnato i confini. Lo Stato, per come dirò più oltre, avrà il compito di coordinamento e controllo per mezzo di magistrature tecniche a ciò preposte.

Tale convincimento e auspicio per questa nuova ipotesi, è oggi maggiormente rafforzato proprio dalla recente e benefica istituzione delle città metropolitane. Queste, di fatto, comprendono una notevole parte della popolazione italiana e i territori amministrati sono spesso di pari rilevanza delle province. In loro presenza e per le ragioni sopra esposte le regioni e le province non hanno più ragione di esistere. Si tratterà poi di rivedere i confini dei territori comunali, accorpando minuscole realtà ai comuni di maggiore consistenza e rivedendone le organicità sulla base della loro storia, della loro morfologia, del loro attuale sviluppo economico e produttivo. Così facendo, sarà il Comune a ritornare a essere il principale e pressoché unico interlocutore dei cittadini per quanto riguarda ad esempio la materia urbanistica ed edilizia, ma poi anche per quanto attiene la manutenzione stradale la cui rete andrà riclassificata individuando la viabilità comunale, la viabilità statale, la viabilità autostradale. Sarà di necessità rivedere le competenze per quanto riguarda l’edilizia scolastica, almeno quella afferente la scuola primaria e tutto ciò che, di competenza comunale, avrà impatto immediato e diretto con la vita dei cittadini.

Allo Stato il compito di progettare le grandi infrastrutture, di delineare le direttrici di sviluppo produttivo, di soprintendere alla edilizia scolastica e ospedaliera e a tutto ciò che è anche attualmente di sua competenza. Di qui, da questo nuovo assetto amministrativo nel quale Stato e Comuni sono i principali pilastri su cui ipotizziamo si debba reggere la costruzione per il suo buon funzionamento, la necessità di dar vita a delle “magistrature delle opere pubbliche” (Magister Territorii), da intendersi come istituzioni di cerniera e collegamento tra Stato e Comuni che nulla hanno a che vedere con ciò che intendiamo oggi per “magistratura”. Si tratta di una magistratura centrale, articolata per sezioni territoriali, autonoma, svincolata dal potere politico, composta da personale addestrato in speciali università, utilizzando in particolare personale attualmente impiegato nelle province e regioni esistenti, e formato nelle diverse discipline tecniche, organizzative, amministrative e finanziarie.

Saranno queste magistrature ad assicurare il corretto funzionamento degli appalti delle opere pubbliche e della loro corretta esecuzione, cosa questa che garantirebbe il corretto impiego delle risorse economiche derivanti dalle tasse pagate dai cittadini. Potranno essere impiegate, queste magistrature, nella preventiva vigilanza del territorio e nella sua salvaguardia in accordo con i Comuni, definire con essi gli interventi, curare il corretto suo utilizzo. A fronte dei circa 8300 enti appaltanti esistenti oggi in Italia, la Francia ne conta circa 700 controllati o rappresentati dalle prefetture. Potremmo acquisire l’esperienza francese anche in presenza di nostre prefetture già esistenti nei nostri ordinamenti e per le quali sarà necessario definire i nuovi compiti oltre che rinforzare i loro organici proprio con il personale di cui si diceva. Stessa cosa per le città metropolitane che con il Magister Urbis o se si vuole, con il City Board, potrà controllare il corretto impiego delle risorse economiche necessarie alla realizzazione delle opere decise dalla politica e dalle amministrazioni pubbliche. La proposta di questa nuova riorganizzazione amministrativa, la cui realizzazione potrà apparire laboriosa, ma pur sempre possibile, si dovrà scontrare con le opposizioni della stragrande maggioranza del ceto politico in carica che vedrà seriamente minacciata la propria fonte di potere e sostentamento, mentre vi è la ragionevole certezza che potrà ottenere il consenso della cittadinanza e in particolare dei ceti produttivi che ne comprenderanno ben presto tutta la sua valenza. Rammendare un vestito che abbia un solo strappo è possibile; non altrettanto è possibile agire nel caso dell’Italia che necessita di drastiche cure alternative vista la condizione che a ragione può essere definita agonizzante.

Ciò vale beninteso per tutti gli altri settori che vorremo affrontare. In conclusione il disegno proposto, se attuato, produrrà le seguenti principali conseguenze: 1) Eliminazione di strutture pletoriche e palesemente dannose quali si sono dimostrate Regioni e Province e razionalizzazione delle funzioni amministrative territoriali; 2) Controllo degli appalti per le opere pubbliche nella spesa e nella esecuzione; 3) Uguaglianza e parità dei cittadini italiani con la automatica sparizione delle antistoriche Regioni a Statuto speciale; 4) Unità dell’Italia e degli italiani; 5) Trasparenza amministrativa; 5) Benefici ambientali; 6) Benefici economici per le casse dello Stato e dei cittadini, preludio a una possibile diminuzione del peso fiscale; 7) Parità di trattamento sanitario e scolastico. Potrà in definitiva, tale disegno, costituire uno dei fondamenti per ridare un senso e una direzione positiva alla nostra collettività nazionale.


di Giuseppe Blasi