mercoledì 3 luglio 2013
Ha ragione il senatore Mario Monti quando ricorda al premier Letta che con i «piccoli passi» non si va avanti. E lui può parlare per esperienza diretta... I passi sono piccoli, impercettibili, ma il governo pretende che ora “altri” facciano la propria parte. E' questo il messaggio recapitato al mondo delle imprese. Sia da parte del premier in persona, quando al termine del vertice europeo della scorsa settimana, dopo aver ottenuto dall'Ue 1 miliardo di fondi per il lavoro in due anni, ha fin troppo euforicamente detto che «ora le imprese non hanno più alibi» (nemmeno quello del total tax rate al 70%, caso unico al mondo?), sia da parte del ministro del lavoro Giovannini, che al convegno di Confindustria ha spiegato che non può essere solo il governo a creare «opportunità» per i giovani, serve «l'impegno dell'intero paese, comprese le imprese».
Analisi corretta a metà. E' senz'altro vero che il governo non può “creare” posti di lavoro (anche se poi, dalle misure varate si direbbe che nell'esecutivo sia piuttosto diffusa la convinzione opposta), ma riesce benissimo ad ostacolarne la creazione. Dire alle imprese che ora sta a loro impegnarsi è come incoraggiare un prigioniero a liberarsi dopo avergli dato un bicchiere d'acqua... ma è ancora incatenato! Puro sadismo. Non è «il peso dei 2,2 milioni di “neet” (giovani che non lavorano, non studiano né si stanno formando, ndr)» che «ci porterà a fondo». Il ministro Giovannini confonde uno dei sintomi della crisi con la causa: a portarci a fondo è il peso dello Stato. Da ex presidente dell'Istat dovrebbe almeno far bene di conto, eppure come ha calcolato Tito Boeri, dagli sgravi sulle nuove assunzioni si possono ottenere nella migliore delle ipotesi 28.846 posti di lavoro (la cifra che risulta dividendo i 225 milioni l'anno stanziati per 7.800 euro, lo sgravio concesso per 12 mesi), un numero ben lontano dai 100 mila evocati dal ministro. Ma il punto è che i pochi e temporanei sgravi, così come il miliardo e mezzo messo a disposizione dall'Ue nei prossimi due anni, stanziato senza nemmeno sapere come concretamente verrà speso, possono ben poco se le imprese non vedono una prospettiva di aumento della produzione che le induca ad assumere. «Gli sgravi andranno per lo più alle imprese che avrebbero comunque fatto assunzioni», conclude Boeri.
La realtà è che in queste settimane, riempiendosi la bocca della parola “lavoro”, il governo italiano e i governi degli altri paesi europei riuniti a Bruxelles hanno messo in scena un'enorme operazione propagandistica. Per una ripresa vera, che non sia solo uno 0,3-0,4% trainato dall'export, l'Italia ha bisogno di un radicale shock fiscale e di riforme vere del mercato del lavoro. Invece, con i sussidi temporanei, che non hanno mai funzionato, l'Europa conferma la propria essenza: un carrozzone che sa solo spendere soldi, ma non attuare politiche per la crescita. Il nostro premier ha festeggiato per quel miliardo e mezzo come avrebbe festeggiato un politico meridionale all'ennesimo stanziamento di fondi a pioggia da Roma. Con il vertice Ue di venerdì siamo entrati a pieno titolo nell'era dell'euroassistenzialismo. Entrare nell'Euro avrebbe aiutato l'Italia a diventare “più europea”, si diceva e si dice ancora.
Sta accadendo il contrario: è l'Europa che si sta “italianizzando”. Si sta ripiegando su se stessa, chiusa in un dibattito tra i paesi del sud e la Francia che chiedono aiuti e investimenti, e quelli del nord e la Germania che tengono stretti i cordoni della borsa. Una dinamica che ricorda molto quella italiana sulla “questione meridionale”: un nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso. Piuttosto che accelerare i processi di unione bancaria e unione fiscale, e riconoscere la necessità di riforme strutturali e fiscali volte a far recuperare competitività alle nostre economie appesantite da bilanci pubblici famelici, burocrazie opprimenti e mercati troppo rigidi, e di discutere come implementarle velocemente in tutti i paesi, ecco che il nuovo tema elevato a priorità negli ultimi vertici Ue, al pari del lavoro, è quello dell'evasione fiscale: il problema che sembra angosciare i governanti europei come quelli italiani, senza eccezioni, è come far cassa, dove rastrellare soldi freschi da destinare a ulteriori investimenti dall'alto (la maggior parte dei quali si riveleranno improduttivi) e a nuove forme di assistenzialismo. Come i miliardi appena stanziati a Bruxelles, in modo generico, “per il lavoro”. Le stesse cure che lo Stato unitario ha “somministrato” per oltre un secolo al nostro sud, oggi diventano le concessioni di Berlino e degli altri stati membri del nord ai paesi dell'Europa mediterranea.
di Federico Punzi