mercoledì 19 giugno 2013
Io non capisco il perché di tanto discutere sui risultati delle ultime amministrative, perché a sinistra cantino vittoria e a destra si ritengano sconfitti. Da chi? Dal cinquantadue per cento degli italiani che non hanno votato? La Sinistra avrà pure vinto ma se più della metà degli Italiani non sono andati a votare è evidente che anche lei ha perso molto consenso, anzi, ne ha perso più della Destra, se è vero che gli elettori di sinistra vanno sempre a votare tutti uniti e compatti, e dunque la stragrande maggioranza di coloro che non hanno votato sono più di destra che di sinistra. Che valore ha quindi un simile risultato? Può la Sinistra cantare vittoria solo perché, sulla carta, ha raccolto un consenso maggiore fra meno della metà degli Italiani? Il voto ha un valore relativo quando non votano tutti o almeno un numero ragguardevole di elettori.
E quando votano la metà come orientarsi? Bisognerebbe dar credito ai sondaggi (che attualmente danno in vantaggio il centrodestra). Gli elettori che non hanno partecipato alle votazioni partecipano però della vita del Paese, dunque non possono essere ignorati, vanno comunque messi nel conto. E poi, che valore ha un voto dato senza convinzione? O fondato sull’umore, su un moto passionale passeggero, per protesta, per punire chi ci ha deluso, ma che comunque, nel fondo, resta sempre il nostro punto di riferimento? Come si vede un discorso sul voto e sui risultati di una consultazione elettorale è piuttosto complesso e articolato e bisogna andarci cauti prima di cantare vittoria, tanto più quando si dice che quello che conta è il "paese reale". È assurdo poi da tali risultati trarre la conclusione che la Destra non esiste più. Andate a stanare gli astensionisti e vedrete qual è fra loro l’ideologia prevalente. Il fatto è che la Sinistra, nei momenti del bisogno, fa quadrato, la Destra no, la Sinistra prende sempre tutte le iniziative, si fa sentire, si fa vedere, mobilita la piazza, organizza convegni, ha uno spazio esorbitante in televisione. La destra sta a guardare, perché non è un movimento di lotta. Però è maggioritaria.
La Destra c’è, si tratta solo di organizzarla, come sa fare la Sinistra con se stessa. Le persone capaci, che possono dare un contributo concreto nella Destra ci sono, e spingono pure per essere ascoltate, per avere anch’esse la loro giusta parte di visibilità. Ma la risposta dei loro capi è sempre la stessa: «Abbiamo altro da pensare!». E invece è proprio questo che bisogna pensare: un partito, un movimento, si costruisce dal basso, non dall’alto, deve avere delle radici, solo lavorando in profondità si può creare qualcosa di durevole e sicuro. È qui che differiscono fondamentalmente la Destra e la Sinistra, per il resto, ormai, le diversità appartengono quasi esclusivamente ai comportamenti: in genere la Destra è aperta al dialogo, ha senso di responsabilità e spirito costruttivo anche quando si trova all'opposizione, mentre la Sinistra attua sempre la tattica marxista e leninista dell’opposizione ad oltranza, della sopraffazione e della criminalizzazione dell’avversario.
La Destra ha sempre accettato il confronto con ogni ideologia, grazie a uomini come Bottai, che con spirito liberale nella redazione della sua rivista Primato accolse anche molti intellettuali antifascisti e addirittura comunisti e socialisti, quali Guttuso e Mafai. La Destra insulta raramente, e per reazione, come accadde nel primo dopoguerra, quando ad accendere la miccia furono i comunisti: le reazioni dei fascisti erano giudicate da illustri antifascisti, quali Salvemini e De Gasperi, «legittime» e «a scopo difensivo». Questo per dire che in genere la Destra se non è provocata non dà fastidio. Così come i poliziotti non picchiano se non sono aggrediti o minacciati (ma fossero anche solo minacciati cosa dovrebbero fare?). La Destra, insomma, è tollerante, nessun suo esponente ha mai detto a quelli della Sinistra: «Io con voi non ci parlo», «Voi siete impresentabili», o addirittura «Non avete niente di umano». Ora, visti i risultati delle elezioni, molti della Sinistra hanno rialzato la testa e come sempre in simili circostanze si danno da fare per rovesciare il Governo, perché secondo loro i risultati derivanti da un astensionismo colossale hanno dimostrato che gli Italiani (ma quanti?) non vogliono alcuna intesa fra la Destra e la Sinistra. E rilanciano il solito ritornello: «Ma quale pacificazione!». («Nessuna pace tra l'eterna guerra / dell'agnello e del lupo e tra noi due / né giuramento né amistà nessuna, / finché l'uno di noi steso col sangue / l'invitto Marte non satolli»).
Enrico Letta rassicura che «il risultato delle amministrative, visto nel suo complesso, rafforza lo schema del governo di larghe intese», mentre da destra si grida che le larghe intese invece di punire il Pd hanno penalizzato il Pdl. Rosy Bindi dice che il successo del Pd «deve servire ad incidere sul governo», Vendola che «il voto non rafforza le larghe intese». E Bersani ci riprova, proprio mentre il Governo sta mettendocela tutta per uscire dalla crisi (sarebbe a dir poco ridicolo se questa volta fosse il Pd a staccare la spina). Siamo sempre alle solite. In Italia vincono i partiti, non gl’Italiani. La nostra è una politica fatta di trame, di vendette, di rivalse, oltre che di insulti e di parole al vento. E ora, dopo che otto milioni di italiani, nelle ultime elezioni politiche, hanno fatto sentire la loro protesta, anche quella grande fetta di popolo si sta sfasciando. Siamo irrecuperabili. Una «espressione geografica» ci definì Metternich, una «terra di morti» ci disse Lamartine. «Ci vorrebbe un Napoleone», ci sgridava Stendhal. «Ma dove lo si va a prendere?», si domandava. Già.
Quello che manca agli Italiani è un uomo forte e deciso, che costituisca un punto di riferimento in cui tutti possano riconoscersi, una stella polare, una guida vera che sappia entusiasmare, accendere negli animi l’amore, non l’odio, per la patria, per la famiglia, per le cose nobili e alte, che riesca veramente a rappresentare tutti e in cui ciascuno possa identificarsi. «Duce, sei tutti noi!», gridavano gl’Italiani nel Ventennio, e fra di loro c’erano fior d’intellettuali. Come Montanelli, che nel 1936 su Meridiani, un periodico bolognese, così scriveva: «Quando Mussolini ti guarda è inutile tentare di recitare e di ricorrere alla suggestione di una messinscena qualunque. Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. C’è chi, per essere qualcuno, ha bisogno di ricorrere a una divisa o a un distintivo. Mussolini no. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e insofferenti, noi stessi gliele strappiamo di dosso, mirando solo all’inimitabile essenzialità di quest’Uomo che è un vibrare e un pulsare formidabilmente umani. E il resto non conta». Gli stranieri non erano da meno. Herczeg, un grande giornalista e narratore ungherese, sul Corriere della Sera scriveva: «Anche coloro che lo vedono per la prima volta hanno l’impressione di vedere un’antica e buona conoscenza. Anch’io, straniero, sento che fra tutta questa moltitudine egli è l’unico che io conosco, l’unico al quale, in qualche modo, appartengo. La sensazione dell’apparizione di Mussolini che non sbiadirà mai è quella che gli Italiani vedono in lui se stessi, la realizzazione del pensiero della loro razza, la incarnazione della nuova Italia».
Persino gl’Inglesi, che pure si erano mostrati ostili alla nostra aspirazione africana, ebbero per Mussolini parole di elogio. Churchill, che lo definiva «il più grande legislatore vivente», «una pietra miliare nell’evoluzione del mondo», «un centro di orientamento» per le altre nazioni, un giorno gli disse: «Se fossi italiano sono sicuro che sarei stato interamente con voi dal principio alla fine della vostra lotta vittoriosa contro i bestiali appetiti del leninismo. Il vostro movimento ha reso un buon servizio al mondo intero». È finita male, ma quelle pagine non si possono cancellare. Quando il fascismo salì al potere (e anche allora si costituì un governo di larghe intese) Giolitti disse che Mussolini aveva «tratto il Paese dal fosso» e Benedetto Croce osservò che non solo non si poteva aspettare ma neppure desiderare che il Fascismo cadesse. «Il Fascismo», disse, «non è un’infatuazione, non è un giochetto. Esso ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e fra gli applausi della nazione, sicché per una parte c’è nello spirito pubblico il desiderio di non lasciar disperdere i benefìci del Fascismo e di non tornare alla fiacchezza e all’inconcludenza che lo avevano preceduto, e dall’altra c’è il sentimento che gl’interessi creati dal Fascismo sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra». Oggi l’Italia più che in un fosso è precipitata in un baratro e rischia di toccare il fondo. Ma che lo tocchi, finalmente! Forse solo così tutti quanti, il popolo, il governo, i partiti, la Destra e soprattutto la Sinistra si renderanno conto che bisogna davvero rimboccarsi le maniche e darsi da fare.
di Mario Scaffidi Abbate