mercoledì 5 giugno 2013
Quello che riuscì male al Fascismo sta venendo bene e sostanzialmente alla Repubblica. Il corporativismo, carattere connaturato alla società italiana, trova sempre più riconoscimenti giuridici. Mentre la morsa dei sindacati, benché di fatto attenuata a causa dei profondi mutamenti nella struttura dell’economia e del lavoro, continua ad imprimere un carattere organico alle relazioni tra le forze produttive, i gruppi sociali aspirano ad essere inquadrati in categorie protette, a diventare soggetti organizzati in ordini autonomi. È paradossale che i sindacati dei lavoratori respingano tuttora una legge che li disciplini, sebbene prescritta dall’articolo 39 della Costituzione, mentre le categorie per le quali non esiste tale obbligo, la chiedono a gran voce.
Del resto le confederazioni sindacali, sempre così zelanti, anche a sproposito, nel manifestare ed insorgere in difesa della Costituzione, sono proprio le più decisamente contrarie ad applicarla a se stesse. Ma la coerenza non è mai stata una precipua virtù dei sindacalisti. Il desiderio di far parte di una corporazione con i crismi della legge contagia le categorie più impensabili. Quasi tutte ambiscono ad un albo, registro, ruolo, elenco, riconosciuti dallo Stato. Sembra, ed è, un ritorno a pratiche medievali. Nell’era della globalizzazione, rifiorisce il protezionismo professionale. Le associazioni di arti e mestieri, che costituivano la base sociale della civiltà comunale, tornano d’attualità. Tuttavia, questa rinascita, questa tendenza non è un caso, forse, che si verifichino in un’Italia che si rinchiude nei localismi e mostra di sentire meno la fedeltà alla nazione che al campanile. Le vecchie professioni liberali, tradizionalmente protette dagli albi più antichi, hanno fatto scuola.
A parte che può essere contestabile l’idea in sé dell’albo protettivo, desta meraviglia che invochino il riconoscimento pubblico il mestiere di cuoco, l’attività di centralinista o la professione di consulente filosofico! Probabilmente il Parlamento accontenterà a breve i restauratori e i non meno benemeriti assaggiatori di pizza. Nei registri delle camere di commercio c’è di tutto: estetisti, rappresentanti, autoriparatori, grossisti di ortofrutta. Attendono una leggina ad hoc gli operatori della riabilitazione equestre, i mediatori interculturali e perfino gli imam. Sono aspirazioni e richieste che esprimono la libidine italianissima del pezzo di carta, della certificazione, dell’attestato, del valore legale di un documento ottenuto a mezzo di altri documenti, in un vortice di carte burocratiche che tutti deprecano e tutti alimentano. E siccome non esistono desideri dell’elettore che non trovino l’eletto pronto a soddisfarli, proliferano le proposte di legge parlamentari e regionali, le delibere, i regolamenti in materia.
I cittadini all’apparenza pensosi di preservare e garantire la qualità delle loro prestazioni cercano in realtà di istituire un monopolio di categoria al riparo della concorrenza e così tenere le remunerazioni ad un livello più alto di quello che raggiungerebbero senza il riconoscimento legale. Ciò nonostante, i sostenitori di queste pratiche illiberali sono in prima fila nell’addossare alla società i difetti che il soddisfacimento delle loro aspettative finisce per aggravare.
di Pietro Di Muccio de Quattro