mercoledì 17 aprile 2013
Paolo Armaroli è stato per trent’anni professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università di Genova, dove ha insegnato anche Diritto parlamentare, e prima ancora docente di Storia delle Costituzioni nell’Università di Firenze. Ha all’attivo molti saggi su temi costituzionali e politici quali il referendum, l’elezione e i poteri del presidente della Repubblica, il governo, il Parlamento, il potere di gra-zia. Ha potuto esaminare in corpore vili l’oggetto dei suoi studi quando è stato de-putato fra il 1996 e il 2001, capogruppo di An alla commissione Affari costituzionali, membro della Giunta per il regolamento e componente della commissione bi-camerale D’Alema per le Riforme costituzionali. Lunga è la serie delle collabora-zioni come editorialista: «Il Tempo», «il Giornale», «La Nazione», «La Voce», il «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Libero». Attualmente è opinionista del «Corriere Fiorentino» e componente della Consulta statutaria della regione Liguria. La sua più recente fatica è rappresentata da un libro, edito dal fiorentino Mau-ro Pagliai di Polistampa, il cui titolo è tutto un programma: "Lo strano caso di Fini e il suo doppio nell’Italia che cambia" (pp. 240, € 18).
Professore, Lei, con questo libro appena pubblicato, non si è forse voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa perché a suo tempo l’ex presidente di Alleanza nazionale, dopo un quinquennio operoso, non La ricandidò?
Questa è una sciocchezza piramidale. Lo ha affermato su la Repubblica Alessandra Longo, che è un’eccellente giornalista. Ma stavolta ha preso un granchio. La verità è che non sono stato ricandidato (senza rimpianti) per far posto a chi da una vita militava in un partito del quale non ho mai avuto la tessera. E poi Fini ha sem-pre ricevuto volentieri i miei studenti di Genova, da me accompagnati, in viaggio d’istruzione istituzionale a Roma. E mi ha fatto arrossire per le buone parole spese nei miei confronti. Tant’è che un mio studente birichino ha osservato perché mai Fini dopo un tale monumento non mi abbia ricandidato.
Allora, perché questo libro?
Come costituzionalista, mi ha intrigato lo strano caso di un presidente della Camera che fa politica a tutto campo. A differenza di tutti quanti i suoi predecessori. Ri-cordo che nel 1877 il presidente della Camera Francesco Crispi si fa togliere dalla chiama, e da allora i presidenti di assemblea parlamentare non votano più. E dai primi anni del Novecento non possono neppure dire la loro sulle questioni all’ordine del giorno.
Perché Fini vuole, fortissimamente vuole, la presidenza della Camera?
Perché stanco di essere il numero due di Berlusconi. Ma poi, una volta affrancatosi da un abbraccio ingombrante, gli si rivolge contro su tutta una serie di questioni. È l’inizio di un duello che porterà alla rottura irreparabile, alla formazione di un nuovo soggetto politico e al passaggio di Fini dalla maggioranza all’opposizione, nella famosa votazione del 14 dicembre 2010 che registra il fallito assalto alla dili-genza governativa.
A ogni buon conto, a Suo avviso Fini è stato imparziale nella conduzione dei lavori parlamentari?
In linea di massima, direi di sì. Si è detto che nel suo studio di Montecitorio ci siano stati conciliaboli con esponenti dell’opposizione, allo scopo di far cadere il governo. Intendiamoci, non lo escludo. Ma non ho l’abitudine dei maggiordomi di guardare dal buco della serratura. Forse ha commesso qualche errore veniale in talune sue decisioni. Solo in qualche rara occasione ha dato l’impressione di farsi portavoce dell’opposizione anziché della Camera intera. Tutto sommato, però, qui si è manifestato il dottor Jekyll. Il guaio è che fuori del Palazzo si è materializzato l’inquietante signor Hyde.
Il suo libro ha un sottotitolo pesante: “Tutte le anomalie della XVI legislatura e oltre”. Ce ne sono state e ce ne sono davvero tante?
La mia ricostruzione parte da una giustificazione di Fini al proprio operato extra moenia. Ha sì riconosciuto che il doppio ruolo da lui giocato è una bella anomalia. Ma – ha aggiunto – è un’anomalia che s’inquadra nelle tante anomalie che sono emerse in questi ultimi anni.
Ne vuole enumerare qualcuna?
Volentieri. In effetti, non c’è che l’imbarazzo della scelta. È un’anomalia che il pre-sidente del Consiglio, autorevoli ministri ed esponenti di primo piano del centrodestra abbiano fatto di tutto per licenziare il presidente della Camera. È un’anomalia che i governi Berlusconi e Monti, come poco dopo farà il Papa, abbiano preannun-ciato le loro dimissioni. Come di solito fanno solo i cosiddetti gabinetti a termine. È un’anomalia che il potere legislativo si sia sempre più trasferito dal Parlamento – ormai un Principe senza scettro – al governo.
E del Quirinale che dice?
È un’anomalia che Giorgio Napolitano sia stato costretto a fare, per così dire, gli straordinari allo scopo di tenere in piedi la baracca Italia. È un’anomalia che a due mesi dalle elezioni non sia alle viste uno straccio di gabinetto. È un’anomalia che il presidente Napolitano abbia tenuto in frigorifero il preincaricato Bersani e abbia costituito due commissioni di presunti saggi, le cui conclusioni programmatiche po-tranno essere di qualche utilità al suo successore. È infine un’anomalia che Napolitano abbia “suggerito” alla presidente della Camera Laura Boldrini, nella sua veste di presidente del Parlamento in seduta comune integrato dai 58 delegati regionali, di riunire i grandi elettori appena tre giorni dalla data di convocazione, e cioè il 18 aprile, per accelerare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Se così stanno le cose, vuol dire che il Quirinale ha accumulato su di sé il potere disperso da una classe politica buona a nulla e capace di tutto?
Proprio così. Il risultato è che il nostro regime parlamentare sta scivolando verso il presidenzialismo. E non è detto che la cosa, con questi chiari di luna, sia disdicevole.
Come giudica il successo di Grillo?
È un fuoco fatuo. È bene aprirsi al nuovo, ma quando si accompagna alla più as-soluta incompetenza verrebbe da dire “Arridatece i puzzoni della Prima Repubblica”.
Lei evoca nel suo libro lo spettro della Repubblica di Weimar. Perché?
Negli ultimi anni della Repubblica tedesca del primo dopoguerra, tra il 1927 e il ‘33, si rincorsero governi effimeri e scioglimenti anticipati a ripetizione del Reichstag, la Camera bassa. E nel gennaio 1933 Hitler salì al potere. Il potere, come ammoniva De Gaulle, non si prende. No, si raccatta. Qualcosa di simile – a parte Hitler – potrebbe capitare da noi, se avremo una rincorsa del genere.
Come se ne esce?
Proprio non so. E poi ricordo cosa diceva quella malalingua di Winston Churchill: “Non azzardate previsioni, ma lasciatele fare ai competenti, che di solito non ne azzeccano una”. Per concludere, mi piace citare il vecchio Marx, secondo il quale la storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda in farsa. Ecco, per nessuna ragione al mondo vorrei morire dalle risate.
di Marco Bertoncini