sabato 2 marzo 2013
“E’ sopratutto contro il malcostume di certi giornalisti d'Italia ch'io spargerò amare parole, ferendone qui la sguaiata oltracotanza, o anche la semplice inconsideratezza. A qual segno non si è giunti d'arbitrario abuso della stampa! Se è vero che rumoreggi mala voce di noi negli altri paesi, se è vero che vi si afferri con maligna compiacenza ogni opportunità di morderci, domando io se tutte queste inconsideratezze e villanie, di che riboccano certi articoli di certi fogli, non andranno confuse in quella storta opinione con l’idea di carattere, di gusto, di educazione nazionali. Dei giornalisti beffardi e screanzati certo n'ha da avere anche la Francia; ma in Francia, per ciascuno di questi v'ha dieci scrittori critici che usano sottile discernimento, che rendono giustizia al vero, e cui disserrano le Grazie un gentil sorriso; ridono con leggiadria e fanno ridere, frammettono la festività alla discussione e non accade loro mai d'insultare goffamente, tanto meno chi abita un'alta sfera del mondo degli ingegni”.
Sembra un’analisi del giornalismo nostrano di oggi e invece risale all’Ottocento e porta la firma di Ludovico Di Breme, lo ‘spadaccino’ del Conciliatore. Un secolo dopo Giovanni Papini rincarava la dose definendo i giornali “pezzi di foglio sudicio”, “il surrogato degli spettacoli gladiatori, delle corride e delle pubbliche impiccagioni”, “beveroni di piaggeria, di ruffianismo, di rettorica e di menzogna”, e i giornalisti “una casta potente di spie dichiarate” pronte a “strafigurire o nascondere la realtà”, “storici dell’attimo che ridipingono il vero per rendere ancora più sapido il bottino del loro universale spionaggio”. Dal “foglio sudicio” di Papini alla “carta straccia” di Giampaolo Pansa il passo è breve. Il grande giornalista approfondisce la sua analisi sull’Informazione e sotto titoli altrettanto emblematici (Chi sbaglia non paga, Chiacchiere da bar, Dossieraggi, Beriatravaglio, Vai via con loro, Postriboli in tv) elenca i capi delle grandi testate e i misfatti delle loro truppe, la faziosità politica, gli errori, le interviste ruffiane, le vendette, le doppiezze, il “bubbone” dei talk show televisivi, e così via. Il tutto sullo sfondo di un paese violento e rissoso come non mai.
Nel suo libro precedente, dedicato ai “peccati e peccatori del giornalismo italiano” (Carte false, edito anch’esso da Rizzoli), Pansa esordiva con queste parole: “Sempre di più, il giornalismo italiano mi appare così: un mestiere che non può, o non vuole, distinguere il falso dal vero, un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso”. Dopodiché elencava, capitolo per capitolo, una lunga serie di tipi di giornalisti, fra i quali gli asini, i ciechi, i reticenti, gli assaltatori, i giustizieri, gl’imbonitori, i corrotti, i dissennati, i leccatori, i vittimisti, gli analfabeti di ritorno, gli scandalisti, i violentatori, i militanti, i crociati, gli opinionisti mascherati, i Rambo, i giornalisti-spray e l’asino della Rai-Tv. Qualche anno fa il presidente stesso dell’Ordine dei Giornalisti, accennando a certi scoop e a certe foto, dichiarò che se i giornalisti riconoscessero i loro difetti ed evitassero di commettere certi errori il giornalismo sarebbe migliore. Enzo Biagi, di fronte allo strapotere delle Redazioni, esclamò: “Ormai saranno due o tre i direttori che contano qualcosa, che possono respingere un pezzo o decidere di pubblicarlo, tagliare una sciocchezza, o mutare una mansione”. Paolo Mieli rimproverò i suoi giornalisti dicendogli: “Voi della cronaca siete stupidi: non potete prendere iniziative”, Antonello Piroso dichiarò che la regola di certi giornalisti è quella di nascondere la verità “per non fare il gioco dell’avversario”, mentre Miriam Mafai confessò che si scrivono articoli partendo già da un pregiudizio, manipolandoli in modo che “coincidano con gli schemi che ci siamo precostituiti”. Come dire che si costruisce la verità su un’idea, non un’idea sulla verità.
La fantasia della comunicazione non si arresta nemmeno di fronte alla più sfacciata evidenza, come nel caso dei disordini di Genova nel luglio del 2001, quando tutti gli Italiani poterono vedere più e più volte, anche al rallentatore, la scena di un’aggressione ad una camionetta dei carabinieri, rimasta isolata, e di un carabiniere che, di fronte ad una grave minaccia alla sua incolumità, esplodeva un colpo di pistola e sfortunatamente - senza alcuna intenzione, come dimostrato dall’inchiesta che ne seguì - uccideva un giovane dimostrante che si apprestava a lanciargli contro la bombola di un estintore. Ebbene, in una parte dell’opinione pubblica, aizzata da politici e giornalisti, il giovane dimostrante divenne un “martire innocente” e il carabiniere “il braccio armato di uno Stato assassino”. La verità rende l'uomo libero, ma la libertà non lo rende necessariamente veritiero, e la menzogna lo rende schiavo: dei pregiudizi, dell'ideologia, dell'arroganza, e così via. Se poi il direttore di un telegiornale si rifiuta di diffondere la spazzatura (che peraltro ha già fatto il giro del mondo) i custodi del diritto di informare insorgono e gridano alla censura. E se un giornale rende pan per focaccia a chi ha propalato impunemente, condendole in tutte le salse, foto e notizie sulla vita privata di un personaggio politico i giornali “avversari” insorgono gridando che quella è un’operazione di “sciacallaggio” o di “pestaggio mediatico”.
L’informazione, insomma, è sotto ricatto, e dunque non è libera: certe verità non si scrivono per non irritare e non alienarsi i politici di riferimento, o si scrivono per accattivarseli. Se si dovessero elencare tutti gli errori e gli orrori dell’Informazione ci vorrebbe un’enciclopedia. Certe cose, pur se veritiere, non si possono sbandierare ai quattro venti, come fece Antonio Giordani coi panni sporchi di Leopardi. Dove sta scritto che un giornalista deve dire per forza tutto quello che vede o che sa, anche se ha sorpreso un politico che la faceva fuori dalla tazza? Nel ’26 Mussolini disse di essere stato costretto a limitare la libertà di stampa "perché gli allarmanti articoli di certi giornali screditavano l'Italia all'estero e provocavano conflitti nello stesso Paese". E accennando all'enorme potere dell'Informazione aggiunse: "Quando la Stampa eccede nei suoi privilegi e mostra di non rendersi conto della sua tremenda responsabilità, il Governo deve porre fine ad un abuso consimile". Il relatore di quella legge dichiarò: "II governo non assume il monopolio dello spaccio della verità, ma semplicemente impedisce la diffusione di notizie false o tendenziose e perciò nocive alla Nazione. Come si impedisce la vendita di alimenti nocivi, ritirandoli dal commercio, così devesi impedire la diffusione delle menzogne dannose". Oggi ci sono individui che comprano pagine di giornali stranieri perché traducano nella loro lingua gli appelli e gl'insulti indirizzati ad avversari politici e persino alle Istituzioni, e non solo provocano o sollecitano il biasimo degli stranieri ma addirittura godono che si parli male del proprio Paese.
Parecchi anni or sono un noto editorialista e direttore di un importante quotidiano romano scrisse una lettera aperta ad un giovane parricida, che recava, a caratteri cubitali, il seguente titolo: "Caro Marco, noi adulti ti chiediamo perdono in ginocchio". E dopo avere incolpato di quel gesto la società, si complimentava addirittura col giovane assassino, concludendo: "Hai fatto bene ad ammazzare tuo padre, io al tuo posto sarei stato ancora più sadico". Ebbene, quel messaggio, sbandierato così ai quattro venti, anche se aveva un fondo di verità, costituiva un vero e proprio incitamento al crimine, poiché forniva un alibi a tutti i potenziali assassini. Scoprire infatti ai giovani prima del tempo le carte di quel gioco dialettico che è la lotta fra il bene e il male (e in cui, pertanto, anche il male ha la sua logica e la sua necessità), è pericoloso, e toglie ai giovani stessi le illusioni, i sogni, gl'ideali, i quali, anche se vani (ma tali appaiono soltanto dopo), sono necessari per spingerli ad andare avanti e a credere nella vita e nei suoi valori. Se oggi i giovani sono smarriti e non si ritengono liberi è soprattutto perché si è continuato e si continua a dire che responsabile dei loro comportamenti è la società, il che sarà pur vero, ma allora è inutile parlare di libertà. L'inconveniente forse più grave in questa fretta e in questa sete di notizie da parte dei giornalisti è la mancanza di verifica delle fonti: non c'è il tempo per verificare. Il solo criterio di veridicità diventano i media stessi: se cioè diversi giornali trasmettono la stessa notizia la notizia deve essere vera per forza.
Così l'informazione mescola il vero col falso, disorientando il lettore o l’ascoltatore che non riesce a capire dove sia la verità. Ci muoviamo in un mondo di parole, o di suoni articolati e convenzionali, con risultati che hanno prodotto già delle catastrofi, quando l’incontro e la mescolanza di popoli diversi (“migranti” in cerca di lavoro) provocarono la confusione delle lingue e l’edificio, costruito con tanta fatica, a un certo punto crollò: un evento che con le nuove immigrazioni è destinato a ripetersi in dimensioni ancora maggiori e forse in via definitiva. Oggi, infatti, quella babelica torre si è ingigantita spaventosamente, tanto che la Comunicazione ha assunto l’aspetto di un mostro che ha finito col generare (e siamo appena agli inizi) una psicosi collettiva. Già in passato Ennio Flaiano nel Diario degli errori lamentava la rapidità e la mostruosità con cui venivano diffuse certe notizie, mentre oggi il filosofo inglese James Gleick in un libro dal titolo molto significativo, Sempre più veloce, osserva che nei 1.400 minuti della sua giornata l'uomo va mettendoci dentro un numero di pensieri e di attività sempre maggiori, “sorvolando su tutto e senza soffermarsi su nulla”. Tutto ormai è diventato informazione e spettacolo, niente ha più peso o significato. Non c'è più spazio per la riflessione.
La comunicazione ha perso di vista quello che dovrebbe essere il suo vero fine: informare per formare. Si fa comunicazione sulla comunicazione, i media si parlano addosso, come quei comici “autoreferenziali” che ridono loro stessi sulle proprie battute prima ancora di essere applauditi. In Italia uno dei problemi più scottanti è la commistione fra politica, affari e comunicazione, e a questo proposito esiste una legislazione che opera, sia pure in modo non uniforme, nei vari paesi occidentali: negli Stati Uniti l'attenzione è rivolta soprattutto alle derive monopolistiche dei magnati, di cui la magistratura cerca di frenare le tendenze espansionistiche, in Francia il panorama mediatico è abbastanza equilibrato, in Inghilterra la tradizionale indipendenza dei media sembra che attenui gli effetti della concentrazione del potere mediatico in poche mani, mentre in Italia i conflitti d'interesse e le arretratezze tecnologiche hanno determinato una situazione molto intricata, resa ancora più complicata dall'intreccio del servizio pubblico col potere politico. Il difetto più che nella comunicazione sta nell'uso che se ne fa, a partire dai giornali stessi, quando sbattono in prima pagina e con un rilievo sproporzionato una notizia che sarebbe più logico, più onesto e più opportuno pubblicare all'interno e senza ricamarci sopra.
Lo scandalo non sta tanto nel fatto che un giornalista vada a ficcare il naso nella vita privata di un cittadino, grande o piccolo che sia, lo scandalo sta nel propalare una notizia la quale più che di giornalismo sa di spionaggio effettuato attraverso il buco della serratura. Si possono dire le stesse cose in altri modi, evitando in chi legge il legittimo sospetto che si agisca per interessi personali, talché a quel punto è inutile protestare che lo si fa per amore della verità, perché quale verità è una verità palesemente infarcita di odio, di veleno, d’invidia e di rancore? E che libertà è una libertà inquinata da simili sentimenti? Anche il doppiopesismo, che condanna l’avversario politico e assolve l’amico imputati entrambi dello stesso reato, oltre che venir meno al concetto di uguaglianza, non è un esempio di libertà: di libero, in quel caso, c’è soltanto l’odio. A leggere tutta la mole di scritti, che lamentano la frequente infondatezza o la falsità di molte notizie che vengono spacciate per vere, l’abitudine di ricavare da una frase estemporanea il giudizio sulla vita intera e sull’intero modo di pensare dell’intervistato, viene da chiedersi come mai, di fronte a un quadro così desolante, non si levi una voce autorevole, dal colle, dai monti o dalla pianura, e cominci a protestare, perché la libertà va bene ma quando crea una tale confusione che non solo non si riesce a distinguere il vero dal falso ma molti addirittura si uccidono perché sospettati di essere dei malfattori quando invece non lo sono, ebbene allora bisogna in qualche modo provvedere.
E invece non si fa nulla, nessuno si muove, anzi, si sorride e si voltano le spalle. C’è una zavorra enorme che è venuta alla ribalta in questi ultimi anni, che abbraccia tutte le classi sociali, tutte le categorie: non solo i guitti, attori, comici, grandi fratelli, ma intellettuali, politici, giornalisti, conduttori televisivi e persino magistrati. La società è diventata un grande circo, che i media contribuiscono ad ingrassare sempre di più. E’ il trionfo della banalità, della volgarità, delle bocche che parlano a vanvera, a ruota libera, sparando una menzogna dietro l’altra, è il trionfo dell’oscenità elevata ad opera d’arte, visto che basta una parolaccia perché il pubblico vada in visibilio.
di Mario Scaffidi