mercoledì 27 febbraio 2013
Peggio che toccare il fondo c'è solo iniziare a scavare. E il Pd sembra pronto a farlo. Doveva solo presentarsi e annunciare le sue dimissioni, avrebbe potuto anche sbrigare la pratica con uno stringato comunicato, invece Bersani ammette la «delusione» ma in sostanza dà la colpa all'arbitro cornuto (la legge elettorale, l'austerità, la politica «moralmente non credibile»), mentre «guardando il voto non siamo noi il problema».
Ma dopo un paio delle sue incomprensibili frasi “ad effetto” («il bicchiere va letto dai due lati» e «sono mancati meccanismi acquisitivi»), ecco la proposta del segretario del Pd sul da farsi: «La nostra ispirazione non è una diplomazia con uno o con l'altro, né discorsi a tavolino sulle alleanze, ma alcuni punti fondamentali di cambiamento, un programma essenziale da presentare al Parlamento per una riforma delle istituzioni e della politica». Il messaggio a Grillo è chiaro: «Ora abbiamo la responsabilità di una proposta di cambiamento più forte di quella che abbiamo portato in campagna elettorale». E richiama i grillini alle loro di responsabilità: «Finora hanno detto tutti a casa.
Ora ci sono, quindi o vanno a casa o dicono cosa vogliono fare per il Paese, che è anche il loro». Tradotto, vuol dire che il Pd metterà sul tavolo alcune proposte tenendo conto delle più “forti” istanze di cambiamento rappresentate dal M5S e in base a questi temi si aspetta che gli eletti grillini votino la fiducia e, di volta in volta, i provvedimenti. Forse non proprio lo “scouting” di cui ha parlato in campagna elettorale, ma qualcosa di simile. Davvero Bersani intende proporre al capo dello Stato di governare un paese come l'Italia – per almeno un anno – con maggioranze variabili e sostegni esterni dei grillini sulle singole proposte, legge per legge? Il Pd – udite udite – ci pensa davvero.
Abbiamo ricordato giorni fa su queste pagine il caso Sicilia, che ora rischia di diventare per il Pd un “modello” da esportare per il governo nazionale. Primo partito alle elezioni regionali siciliane dello scorso ottobre, il M5S ha subito perso la radicale alterità rispetto ai vecchi partiti che Grillo propaganda nei suoi comizi, finendo di fatto nel centrosinistra. A dimostrarlo sono i ruoli istituzionali assunti dai suoi eletti all'Ars e il loro voto in aula: hanno votato la fiducia al governatore Rosario Crocetta, al quale gli elettori non avevano consegnato una maggioranza autosufficiente, e la sua prima legge di bilancio.
Grillini sono il vicepresidente dell'assemblea regionale, un presidente, un vicepresidente e tre segretari nelle commissioni. Sarebbe una prospettiva a dir poco inquietante per il paese, ma il centrodestra, che pur onorevolmente esce comunque sconfitto e fortemente ridimensionato dal voto, non potrebbe chiedere di meglio per rianimarsi: eviterebbe l'imbarazzo di dare la disponibilità, e partecipare ad un governo di larghe intese, e potrebbe limitarsi a guardare il Pd impantanarsi in un'avventura di governo a forte rischio di finire presto, e male, come accadde a Prodi nel 1996 e nel 2006.
E sarebbe chiaro agli elettori, a quel punto, che il movimento di Grillo, lungi dall'essere trasversale rispetto ai vecchi partiti, non è che una costola della sinistra, una sorta di coscienza critica del Pd. Da parte sua Grillo in mattinata aveva prima lanciato la sfida a Pd e Pdl: «Insieme dureranno 7-8 mesi, non di più. E' l'economia che non gli darà scampo, chiudono 1.000 imprese al giorno». Come dargli torto? E poi teso la trappola in cui Bersani sta cadendo: «Se ci sono delle proposte che rientrano nel nostro programma, siamo disposti a collaborare. Noi siamo un movimento di idee, non di protesta», valuteremo «legge per legge». Eppure, a nostro avviso la “road map”, che converrebbe al Pd e al Paese, è una sola. Dimissioni immediate di Bersani.
Tre, quattro riforme da realizzare insieme al Pdl in pochi mesi: legge elettorale uninominale a doppio turno (con sapiente gerrymandering), dimezzamento dei parlamentari, abolizione di ogni finanziamento pubblico, cancellazione della riforma Fornero sul lavoro e diminuzione dell'Imu. E – perché no? – elezione diretta del premier. Fatte queste riforme, leadership rinnovate (il Pd ha già Renzi) e di nuovo al voto.
di Federico Punzi