sabato 16 febbraio 2013
In occasione del 30° anniversario - 17 giugno 1983 - del più clamoroso caso di malagiustizia dell’Italia contemporanea, è in libreria “Enzo Tortora – Dalla luce del successo al buio del labirinto” di Daniele Biacchessi (Alberti Editore, 150 pagine, 15 euro). Diciamo subito, con franchezza, che si tratta di un libro piuttosto deludente, un saggio compilativo e nient’altro.
Per tutta la lunga prima parte, l’autore si dilunga inutilmente e noiosamente sulla storia d’Italia contemporanea, fatti risaputi che nulla hanno a che vedere con l’argomento centrale. Si racconta del fascismo, della guerra, di Mussolini; poi del dopoguerra, del miracolo economico, della Dc; poi ancora di piazza Fontana, di Calabresi, degli anni di piombo, del rapimento Moro.... Lunghe e banali digressioni storico-politiche del tutto fuori tema, solo inframmezzate dagli episodi della vita personale e professionale di Enzo Tortora. Quando però fa riferimento al divorzio e al successivo referendum, l’autore omette completamente di ricordare l’impegno attivo di Tortora nella Lid e con i radicali, in questa storica battaglia civile.
La carriera del presentatore viene ricostruita con minuzia: la prima rottura con la Rai per problemi di censura (quando Alighiero Noschese imita Fanfani, 1962) il ritorno con la Domenica sportiva, il secondo allontanamento questa volta volontario (annunciato da un’intervista al settimanale Oggi, 1969) fino al secondo rientro voluto da Grassi e Fichera (1977) e al trionfo di Portobello, che tocca vette di 25 milioni di telespettatori. Nell’81 il sequestro Cirillo sconvolge Napoli e l’autore si sofferma sul ruolo del boss Raffaele Cutolo e della camorra. La connessione fra questo episodio e il caso Tortora però non viene esplicitata né approfondita.
Quando si arriva all’arresto, lungo è l’elenco dei giornalisti che infangano Tortora alla faccia della presunzione di innocenza: Camilla Cederna, Luigi Compagnone (Secolo XIX) Daniele Mastrogiacomo (Repubblica) Sergio Saviane, Wladimiro Greco (Il Giorno) Luciano Visintin (Corriere della Sera) persino il grande Indro Montanelli. Fra i pochi garantisti, che hanno il coraggio di difendere il popolare accusato, spiccano Enzo Biagi, Vittorio Feltri, Giorgio Bocca. Baglivo e Cavallari, cronista e direttore del Corriere della Sera, arrivano ad accusare Tortora di avere intascato i soldi raccolti per il terremoto in Irpinia. Saranno condannati rispettivamente a 6 e 4 mesi per diffamazione aggravata, alcuni anni più tardi.
Viene descritta bene la sequenza dei pentiti, personaggi squalificati, pluriomicidi, pazzi e bizzarri. I primi accusatori sono Pandico e Barra, gentaglia su cui nessuno scommetterebbe un soldo, gli altri si aggregano alla “colonna infame” dopo l’arresto. Presumibilmente la scintilla scocca per una stupida ripicca, la famosa questione dei “centrini” inviati a Portobello e mai restituiti a Pandico; ma su questo movente iniziale della calunnia il dubbio tuttora persiste.
A pagina 113, cioè molto avanti nel volume, arriva l’annuncio della candidatura con i radicali alle europee. Leo Valiani attacca sul Corriere, si evoca la fuga di Toni Negri. Tortora viene eletto al Parlamento europeo con quasi mezzo milione di preferenze nell’84, è processato e condannato in primo grado a 10 anni nel 1985, si dimette dal PE e si consegna alle autorità in piazza Duomo a Milano. Tornato ai domiciliari, nell’86 viene assolto in appello. La Cassazione confermerà definitivamente l’assoluzione l’anno seguente.
Il testo non contiene il benché minimo riferimento ai referendum sulla responsabilità dei magistrati, promossi e vinti dai radicali e dallo stesso Tortora nell’ottobre del 1987. Questa è forse la più clamorosa lacuna del libro. Il presentatore torna trionfalmente su Rai Due con il suo celebre “Dove eravamo rimasti?” e nel maggio ‘88 muore stroncato da un tumore. “Mi hanno fatto scoppiare una bomba atomica dentro” aveva detto nella sua ultima apparizione televisiva, ospite di Giuliano Ferrara.
Il CSM giudica infondata la causa per danni intentata a suo nome e non ritiene responsabile alcun magistrato. Solo nel 2010 il pentito Melluso (“Gianni il bello” oppure “Cha cha cha”) ammetterà di essersi inventato tutto, per convenienza e per paura, e chiederà scusa ai familiari.
Nella postfazione, Silvia Tortora rievoca con dolcezza e dolore la figura di suo padre, poliedrico giornalista, scrittore e intellettuale, non solo presentatore. “E’ morto maledicendo quelli che lo hanno accusato” scrive. E aggiunge: “Il comportamento più vergognoso è stato quello dei giornalisti”. L’Ordine dei Giornalisti lo ha sospeso per 4 anni e non gli sono stati neppure versati i contributi previsti dal contratto, nessun giornalista è stato chiamato a rispondere delle infamie scritte contro un innocente. “Quale eredità lascia?” si chiede dolorosamente. Purtroppo il libro lascia questo interrogativo senza risposta alcuna: non contiene il benché minimo accenno allo stato degradato e disumano delle carceri italiane, né alla situazione politica e giudiziaria dell’Italia di oggi. Peccato.
Silvia Tortora definisce “orribile” il recente sceneggiato televisivo di Ricky Tognazzi (un giudizio che chi scrive questa recensione non condivide affatto). “Quella fiction così volgare ha degradato la figura di mio padre e lo ha ridotto a una macchietta. Una fiction anche “omertosa” perché cita i nomi di quasi tutti i personaggi coinvolti, ma non dei magistrati. “Non c’è stato coraggio da parte della Rai” è la sconsolata conclusione.
In definitiva, per quanto riguarda sia la rievocazione della vicenda politico-giudiziaria del protagonista, sia la sua battaglia civile contro la malagiustizia e il degrado carcerario, questo libro non rappresenta altro che un’occasione mancata.
di Alessandro Litta Modignani