giovedì 7 febbraio 2013
Mancano pochi giorni allo stop per i sondaggi elettorali. Il rincorrersi di statistiche, cifre e trend di preferenza per questo o quel tema, questo o quel leader finirà di spumeggiare e riflettersi su un elettorato sufficientemente instabile. I sondaggisti hanno sostituito gli opinionisti. Gli elettori stanchi e sfiduciati poco convinti dell’utilità stessa del voto, inconcludente per concretizzare le loro speranze, non si orientano seguendo diagrammi e opinioni ma affiancandosi ai gruppi più numerosi. La denuncia ufficiale sul dato sistemico della corruzione mostra all’elettore un ceto dirigente tutto, nessuno escluso, colluso. La sinistra non vede l’ora che i sondaggisti tacciano, conscia che la campagna elettorale le sia nociva in sé.
Swg per Agorà dà il 33, 6% alla coalizione del bene comune di Pd e sinistre annesse , Lorien Consulting il 35,2%, Emg per La7 il 35,9%, Datamonitor per Class il 34,5%, Ipr Marketing per Tg3 il 34,7%. Demos per Repubblica il 36,4%, Ipsos per Ballarò 37,6%.
Ben 4 i punti di differenza tra massima e minima previsione, che concordano solo su un lento ma continuo trend negativo che probabilmente continuerà fino al momento di voto effettivo. Ingroia e Grillo erodono voti. Il centrosinistra ha esploso tutti i suoi effimeri positivi fuochi artificiali con le primarie intorno la fine dell’anno; da allora ha evidenziato uno stanco volto compromissorio basato sulla coesistenza di apparato e neoliberismo renziano, voglia di sociale ma necessità di austerità, sbiadito antiberlusconismo e soprattutto la tipica arroganza dell’autosantificazione sottolineata dai titoli “Italia giusta” e “bene comune”. Ridicolmente il peggior scandalo da Lehman Brothers senese è scoppiato proprio tra i giusti che per far meglio hanno peggiorato le cose, scaricando le colpe su uno dei vecchi gioielli di famiglia: il potere locale delle regioni rosse. Su queste difficoltà, in un clima poco maggioritario, si sono impiantati i rosicchiatori radicali, Grillo e Ingroia, il quale apparso all’ultimo istante sottrae più voti al centrosinistra di quanto non facesse Di Pietro.
Se Bersani si allontana dal centrismo tassatore di Monti, perde consensi negli apparati, se gli si avvicina, li perde nel mondo delle difficoltà sociali, senza che Vendola del Sel (in continua discesa), chiuso nel recinto della coalizione possa far recuperare. A destra, perso il senso del bipolarismo netto, resta una sostanziale diaspora inconclusa. Il Pdl ha recuperato passivamente qualche punto per “l’effetto Mps”, ha ripreso un punto con l’idea di restituire ai tassati gli importi dell’Imu 2012 ma soprattutto è risalito di due punti con l’’effetto Balotelli”, centomila voti lombardi, “due gol segnati alla Germania”. Per tradizione il partito di Berlusconi aggredisce poco gli altri ma si alimenta di proposte e soprattutto di sogni positivi. Non guarda ai suoi voti quanto al distacco dal Pd che per Tecnè è di meno 5, per Demos di 11. Malgrado i diversi orientamenti, è sotto gli occhi di tutti il recupero miracoloso del Pdl sotto di 20 punti ancora pochi mesi fa.
L’idea di autoriformare il centrodestra è per ora fallita. Chi lo voleva più notabilare, liberale storico, rispettabile ed oligarchico è finito nel piccolo centro, summa dei poteri della manomorta ecclesiale e del pugno di ferro del contabile, del burocrate e del banchiere.
A dicembre tanti volevano un Pdl montiano, un Ppe italiano: Alemanno, Frattini, Augello, Lupi, Formigoni, Urso, Ronchi e Quagliariello, seguiti per forza di cose da Cicchitto. Ora Frattini, sfilato, sarà il nome ufficiale dell’Italia alla Segreteria Nato. Urso e Ronchi sono fuori, Formigoni ha ingoiato il rospo della candidatura leghista alla Lombardia, Augello è stato protetto dal garante Alemanno. Salvi Quagliariello e Lupi, l’ex falco Stracquadanio è fuori, ridotto a coordinatore di Albertini in Lombardia.
Il centro montiano, sostenuto in ogni modo dai migliori media è passato dall’obiettivo del 20% al terrore di finire a metà della metà. L’alternativa antimontiana nel Pdl, nata a dicembre, in versione giovanile con il duo Meloni-Crosetto e nazionalista con La Russa, non è maturata. L’involuzione finiana ha alla lunga trascinato al cupio dissolvi tutta l’ex nomenclatura An senza idee proprie da sostenere. Il giovanilismo dei cattivissimi è troppo caratterizzato da un sottile giustizialismo, simile al dipietrismo o alle idee confuse di una Polverini, infelicemente ripresentata.
I Fratelli d’Italia avrebbero praterie davanti a sé sui temi delle contraddizioni del dualismo Authority-Ministeri, della produzione digitale, del declino manifattuerio, delle best practises da applicare, dello spostamento dei poteri dalle regioni alle grandi città metropolitane. Dovrebbero costruire una forte proposta politica ma forti sopratutto sull’organizzazione, cedono alla tentazione di ripetere leitmotiv propri della sinistra.
A latere ci sarebbero le proposte utili del Fare gianniniano, come del Tea Party, che non si decide mai a presentarsi al voto. Proposte irraggiungibili soprattutto per il rifiuto di Fare o Tea Party di mettersi in gioco chiaramente nel loro luogo naturale del centrodestra. Così con intelligenza il buco lo riempe Storace la cui proposta di unire sanità di Roma e del Lazio, dando effettivamente i poteri regionali a Roma Capitale è di una concretezza terribile, una delle poche idee della campagna elettorale capace di cambiare le cose.
Fratelli e Destra, dati poco sopra l’1% saranno la sorpresa, il plus utile al balzo del centrodestra. In assenza di leader forti, il Cavaliere ha ripreso le fila del labirinto correntizio Pdl nel quale corrono disperati i finiani, tirabdo giù con loro anche ex amici come Aracri e Cursi. Partenze e ridimensionamenti, a parte Meloni e Crosetto, paradossalmente fanno bene al Pdl, momentaneamente perché nessun nodo è sciolto: un populismo destro, capace di riconoscere il nuovo elettore, oltre le divisioni di sigle partitiche scomparse, non è ancora vincente e pochi riconoscono che il centrodestra lombardo ad esempio è culturalmente tutto leghista.
Come nel 2006, nel 2008 le incredibili capacità di Berlusconi, in versione aggressiva Brunetta, mettono una pezza. Il nuovo Parlamento, pieno di giustizialisti e di grillini, in equilibrio sulla punta di spillo dell’entente Pd-Monti, si giocherà attorno ad un centrosinistra al 30%, soglia già toccata dal Pd da solo; e da un centrodx poco sotto. Poi si tornerà a votare in attesa della maturazione, per ora evitata, del centrodestra.
Forse la prossima volta gli autoesclusi rinnovatori si metteranno in gioco, ma allora l’ostacolo sara il ritorno degli sconfitti di questa tornata. Perché nella partitica italiana il brutto – ed il bello – è che nessuno si dà mai per vinto, nemmeno di fronte alla più brutale realtà
di Giuseppe Mele