giovedì 24 gennaio 2013
Siena ai primi del novecento era una città poverissima. Quasi miserabile. Così come veniva descritta negli indimenticabili romanzi di Federigo Tozzi, autore considerato ingiustamente minore di quello stesso periodo. Il suo libro più noto, “Tre croci”, racconta l’epopea di tre fratelli che cadono in rovina a causa delle condizioni economiche generali che li portano a vendersi tutto e a fare cambiali fino a falsificarne alcune per ottenere maggior credito e poi a morire in disgrazia. Le tre croci sono quelle delle rispettive tombe. La storia di questi tre fratelli, rovinati da debiti e cambiali, sembra un po’ il paradigma di quello che sta avvenendo al Montepaschi di Siena a causa dei derivati giapponesi per cui sarebbe indagato Giuseppe Mussari, da l’altro ieri dimissionario dalla presidenza dell’Abi. Il Montepaschi ieri aveva il titolo bancario sospeso in borsa per disperazione. Il tutto dopo avere intascato una seconda rata di Tremonti bond da 3,9 miliardi di euro gentilmente avallata dal governo tecnico che fa fare sacrifici agli italiani. E presta soldi alle banche che stanno già fallendo ignorando i retroscena, o facendo finta di non conoscerli, dell’inchiesta per cui Mussari si è dimesso.
La trama di “Tre croci” nei dettagli, presi per comodità dal sito letterario Parodos.it, è questa: «I personaggi centrali, tre fratelli, sono presentati subito, con il loro temperamento e la loro comune abulia: Niccolò, buongustaio ma pigro, Giulio, incuriosito da alcuni fenomeni culturali, ma incapace di rendersene partecipe, Enrico, uomo bisbetico e sollecito solo delle spese riguardanti i pasti, tutti e tre malati di gotta e piuttosto litigiosi, anche se in forma molto leggera; infatti alle parole non seguono mai i fatti. Fin dalle prime pagine sono posti di fronte al fatto che li porterà in rovina. Nel tentativo di rimediare ai passivi della loro azienda, una libreria che il padre ha loro lasciato fiorente, hanno falsificato alcune cambiali, contraffacendo la firma del cavalier Orazio Nicchioli, assessore comunale, che ha fiducia in loro, anzi vuole “bene davvero a tutti e tre i fratelli”. Nicchioli infatti è un uomo alla buona, tutto preso dall’amore per il suo bambino. In casa con i tre fratelli vivono la moglie di Niccolò, Modesta, e due giovani nipoti, Chiarina e Lola. Modesta si rende conto che qualche cosa non funziona bene, ma i tre fratelli unendo le loro forze le impongono di non occuparsi di faccende che non la riguardano: malgrado “il suo istinto” le dia ragione, lei si sente spaventata, sbigottita, meravigliata, ed è ben lieta che in poche parole sfumi il processo che i tre fratelli sembrano volerle intentare.
Giulio però è molto preoccupato perchè le firme false le ha messe lui col consenso dei fratelli, i quali però, ora che le cose vanno male, tendono a scindere le proprie responsabilità dalla sua. Mentre però Enrico si sottrae a qualsiasi impegno per cercare un salvataggio, Niccolò si agita ed è Giulio il più dolorosamente tranquillo: “Ho fatto di tutto... per mantenerci quel che avevamo avuto da nostro padre ... Era destinato ch’io dovessi finir male, e non me ne lamento... Nessuno può pretendere da me che io non sia come Dio mi ha messo al mondo. Non ho mai recato, volontariamente, male a nessuno. Ho fatto le firme false, solo perchè la mia firma vera non avrebbe contato nulla ... Nessuno, se sapesse ch’io sono un falsario, mi darebbe la mano. Non me ne importa più!”. Giulio chiede così un nuovo prestito al Nicchioli, ma davanti al suo rifiuto non insiste e il giorno dopo fa una nuova cambiale falsa: però il Nicchioli ne viene subito dopo informato e resta sconvolto, sebbene di fronte ai fratelli e in particolare a Giulio, che cade in deliquio, non sappia dire altro che: “Mi aspettavo più coscienza!”. Il fallimento è imminente e mentre le donne di casa, informate da Enrico, non rimproverano niente e la gente è malevola e curiosa, Giulio in un momento di delirio si uccide, i due fratelli superstiti si dividono. Niccolò tenta di trovare un lavoro, ma pochi mesi dopo muore di malattia. Quando Enrico viene a saperlo commenta con risentimento: “È morto prima di me, razza di un cane!... È morto quel farabutto di mio fratello!”. Enrico vive sulle panchine dei giardini e nelle grotte. Modesta cerca di dargli un po’ d’aiuto, invitandolo anche a ritornare alla fede religiosa, ma lui alla fine si rifugia in un ospizio di mendicità, e qui muore. Lola e Chiarina in questa occasione aprono il loro salvadanaio e fanno porre sulle tombe dei tre fratelli tre croci uguali».
A Siena evocare questo romanzo e grattarsi gli attributi è tutt’uno. Ma come si fà a non pensare anche all’attuale situazione in cui Montepaschi si è cacciato grazie alle sue avventure politiche di sinistra, all’ombra della non accortissima amministrazione comunale di cui Mussari è stato anche consulente economico (quando era primo cittadino il diessino Pierluigi Piccini) prima di venire catapultato alla presidenza della Fondazione Montepaschi dal sindaco Maurizio Cenni? Con il Pds prima e con il Pd poi, dall’acquisizione della banca pugliese 121 sponsorizzata da un noto politico di Gallipoli, a quella della Antonveneta, pagata quasi il triplo, avventura di cui tutti ricordiamo la frase «abbiamo una banca!», il cammino è stato simile a quello dei tre fratelli sciagurati seppelliti vicino l’un l’altro. Siena è la città la cui amministrazione comunale è sempre stata espressione del Montepaschi. La cui ricchezza è sempre promanata dal ventre grasso e generoso di quella banca. Se ora salta tutto ci saranno altre tre croci: quella del Montepaschi, quella della città di Siena e probabilmente anche quella del Pd, sui colli che videro le battaglie più sanguinarie del Medio Evo.
di Dimitri Buffa