giovedì 10 gennaio 2013
Il termine Nazionaliberale evocato da Arturo Diaconale, nel suo ultimo libro, sembra opporsi ad altre espressioni politiche. Per esempio, Nazionalpopolare; oppure Socialismo Nazionale. Ed anche NazionalSocialismo, un termine che fa risuonare paura al solo sentirlo. Nazional popolare, prima di essere demonizzato come populismo, a suo tempo venne ridicolizzato come un subpensiero, espresso nelle domeniche pomeriggio tv dei Pippo Baudo.
Socialismo Nazionale fu, per un tempo brevissimo, intuizione di Stefania che colse l’aspetto patriottico del padre Craxi che non a caso fu, nella sinistra moderata, l’unico ad amare più il patriottico Risorgimento che la Resistenza. Quanto al Nazionalsocialismo, fu la realtà storica della Russia sovietica, ebbe i suo natali ideologici nel NazionalStatalismo dell’Italia fascista ed è la realtà di oggi delle grandi economie dirigiste soprattutto della Cina comunista ma anche dell’India e del Sudafrica.
È una grande ipocrisia avere paura più delle parole che dei fatti. La Nazione, invocata da Diaconale, è un fil rouge, il flusso ininterrotto della storia del popolo che non ammette crasi, interruzioni, stasi. Durante l’enfasi patriottica prerisorgimentale si cercavano i fondamenti dell’identità nazionale. Avevano ragione a trovarli nei diversi regni longobardi, città stato, signorie. La nazione c’era (come in Germania) in un contesto separatista.
Lo Stato infine arrivò come costrizione storica indotta dal percorso degli altri popoli che nello Stato avevano trovato una forza moltiplicatrice delle proprie energie. Problema che oggi ha l’Europa nel suo tentativo di farsi patria. Ridotto ad un unico territorio, nazione, stato, dalla globalizzazione, il Vecchio continente, finora puntellato agli Usa, ha fatto dell’europeismo una ideologia, ha puntato sulla governance autocratica carolingia imperiale. Per esistere, l’Europa deve faticosamente diventare patria, espressione dei suoi territori, anche se nel mondo nessuno ad Ovest, Est e Sud la vuole così.
Il fascismo si celebrava come l’epopea del Risorgimento sottolineando come lo stile da camicia dark mazziniana anticipasse i suoi colori. Non aveva torto, poiché all’origine dello schianto in cui finì il Paese, c’era anche l’esplosione delle tante esagerate speranze e delle missioni intelletualmente troppo alate della Pandora risorgimentale, la non misura di risorse e obiiettivi. Nondimeno pregi e difetti del fascismo passarono nell’Italia antifascista, come nel fascismo erano state presenti le forze ad esso antecedenti. A fare la storia delle patrie, delle nazioni e degli Stati, furono quelli che oggi chiamiamo liberali e che furono notabili e massoni. Coloro che in nome di territori e popoli, combatterono l’apolidismo dell’unica grande famiglia astocratica tutta imparentatasi n Europa, e l’universalità delle religioni e degli imperi ideologici.
Di quei liberali che privilegiarono equilibrio e senso di sopravvivenza dello stato ad ogni costo, per il bene più prezioso della coesione sociale e della reciproca sopportazione, ad un certo punto quasi non c’era più traccia. Nella debacle del senso di Paese e nella ripresa della perenne guerra civile italica, i liberali, per non passare da reazionari, si diedero a rincorrere i diritti, inuovi diritti, diritti sempre più particolari, sempre più astrusi, sommamente artistocratici senza avvedersi che ogni nuovo diritto comportava l’abolizione di mille altre libertà, e che dava fiato e risorse a nuove polizie e buricrazie intente a vigilare sulla folla di diritti teorici.
Tanti sono divenuti liberali provenendo da fazioni avverse, tanti altri da liberali si sono sparsi in tutte le direzioni, soprattutto di sinistra, alla ricerca di consenso non trovato in casa propria. Per testimoniare di essere liberali, i professori, giunti al potere, hanno cercato di emulare il periodo di governo postunitario della Destra Storica che in onore del rientro dei debito pubblico, disamorò sostanzialmente un popolo dall’idea di nazione, di per sé già poco popolare.
Tra tutti questi liberali, neo, post,-ari, -isti, Diaconale si è distinto come fosse rimasto fermo, un passo, due, cento indietro; ma non è così. Se si rovescia il cannocchiale, ponendolo in maniera corretta (e non come dicono i media alla Capuzzo), ci si accorgerà che Diaconale è semplicemente un liberale classico. Nazionaliberali erano i fondatori del Paese. Tradotti nell’oggi, i propugnatori della libertà per i produttori, inizialmente dei borghesi contro clero e aristocrazia, poi di tutti i produttori, investitori e lavoratori, e dei diversi tipi di lavoratori, inseriti nel loro contesto territoriale e nazionale.
Diaconale è rimasto lontano dagli isterismi liberali, dalle finte sedizioni di vertice, dalle confusioni dei termini, comprendendo la natura e la bontà del populismo italiano, accostandoglisi con umiltà, dando spazio a tutte le voci del patriota, sia che lo fosse dei valori, del tricolore, del Nord o del Sud, vedendoci l’unico vero rivoluzionario, il vero laico che si batte contro la distruzione della società. Il recupero di sovranità e patriottismo evocati da Diaconale, potrebbero, si spera, portare alla richiesta della restaurazione del senso comune con l’abbattimento anche di molti mostri sacri, come la Costituzione legata ad un momento storico preciso. La via indicata dal direttore de L’Opinione, trascurata dai politici di area che non si sono preoccupati di capire l’animo del loro elettore, incoraggia l’area a non vergognarsi di essere quello che è - nazionaliberale, nazionalsociale, nazionalproduttrice - a volere sì meno Stato, ma solido; ed a vedere il lato peggiore dell’avversario, quello dell’eversore desideroso di distruggere, ieri come oggi, dal basso come dall’alto, senza costruire, il paese.
di Giuseppe Mele