mercoledì 5 dicembre 2012
Il 3 dicembre 2012 tutti i telegiornali rendono noto (quasi a reti unificate) che in Piemonte e Liguria sono state sgominate due potenti famiglie della ’ndrangheta. Che «sono stati sequestrati ai clan palazzi, terreni, auto, conti correnti... tesori accumulati in 30 anni d’attività criminale nel Nord Italia», precisano i tiggì. E poi salta fuori che tra gli indagati per ‘ndragheta vi sarebbero anche amministratori locali, gente che da più di 30 anni ricopre ruoli d’assessore e sindaco, ieri con la Dc ed oggi con il variegato mondo del centro. Allora perché solo oggi emerge che questa gente è organica ad organizzazioni malavitose? È evidente che ci troviamo a cospetto del piano basso (anche se tanto ricco) del patto stato-mafia. Piano basso perché si tratta comunque di gente che ha brigato con appalti nelle municipalizzate, e certo non ha scalato gruppi bancari o società quotate in borsa. Ma queste presenze ultra decennali s’insediano nei comuni del Nord dopo il 1960, e con tanto di benedizione dell’allora Scudo crociato. E questo dimostra che, forse, i mammasantissima della Diccì (tanto rimpianti dall’attuale centro) sapevano e volevano certe presenze nelle amministrazioni locali. Oggi l’Udc è un partitino, forse non supera il 4%, però annovera addentellati nelle amministrazioni di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania: dove localmente si rinnovano abitudini oggi emerse in Piemonte e Liguria. Sgombriamo ogni dubbio: sono le stesse politiche che Peppino Impastato condannava come «politica mafiosa». E certo fa effetto vedere sindaci che prima parlano di legalità in compagnia dei locali prefetti e poi finiscono in manette insieme a ‘ndranghetisti e camorristi. Dove la verità? Sorge il dubbio che il patto stato-mafia sia la vera linea maestra della nostra Italia unita e repubblicana, e che questi scandali non siano altro che una febbre dettata dalle incompatibilità tra potere legislativo e potere giudiziario. Soprattutto è forte il sospetto che non ci sia leader politico che, in gran segreto, pianga per l’arresto del proprio referente locale.
Oggi il Pd dice, almeno a parole, d’aver introiettato la lezione di Impastato: al punto da farne parte del proprio programma. Al riconfermato Bersani non toccherà nemmeno spiegare all’elettorato di sinistra (e non solo) che, l’Udc non è erede di quella Dc che avrebbe consigliato alla mafia d’uccidere Impastato (il giovane attivista infastidiva con un programma radiofonico i grandi elettori palermitani, impegnati nelle speculazioni edilizie e nello sfruttamento bracciantile). Bersani oggi sta con Vendola, quindi non dovrà dividersi con Casini il sostegno di certi “grandi elettori” ormai sparsi su tutto lo Stivale, ed anche all’estero: non facciamo mistero del fatto che italiani nel mondo, siciliani nel mondo, calabresi nel mondo... tifino in gran parte per il vecchio Scudo crociato. Che bella società, pardon, che onorata società quella che prega per un centro equidistante.
Ma nemmeno in casa Pd possono indossare panni tanto candidi. A polemiche ancora calde sulla “trattativa stato-mafia”, è giusto rammentare al lettore che nel 2000 i rapporti tra cooperative rosse (emiliane) e mafia portarono ben quindici ordini di custodia cautelare, su iniziativa della procura della Repubblica di Palermo. Lungi dal voler sostenere che le difficoltà delle politiche 2013 richiedano l’intervento corroborante di “Cosa nostra”, non possiamo dimenticare che, nei giorni successivi all’aprile 1982 e all’uccisione di Pio La Torre, l’allora procuratore capo di Palermo (Vincenzo Pajno) puntava il dito verso la pista interna al Pci. Pajno confezionava un’apposita conferenza stampa in cui parlava delle spartizioni tra coop rosse e mafia. All’epoca si ventilava circa pressioni romane perché la pista aperta da Pajno venisse abbandonata: anzi venne bollata come “un depistaggio”. Che il vecchio Pci avesse in Sicilia rapporti consolidati con grandi imprenditori e importanti mafiosi è storia risaputa. Qualche notabile ne parlava in giro con la massima disinvoltura, e per ammantare di filo-governativo il partito dei lavoratori. Napoleone Colajanni aveva addirittura raccontato con orgoglio d’aver preso i soldi «di persona, ma per il partito quando ero segretario della federazione di Palermo». Ma anche altri prendevano soldi dalle stesse persone: soprattutto la Diccì aveva organizzato con la mafia che anche il Pci capisse l’importanza di mangiare dallo stesso piatto. I comunisti sostenevano fosse giusto e utile prendere quei quattrini per rafforzare il partito del proletariato. La Diccì era contenta, perché aveva fatto assaporare un po’ di Occidente ai discepoli di Mosca. «I soldi venivano consegnati interamente al partito e questo è moralmente ineccepibile», ripeteva Colajanni ai suoi compagni. Ma questa è una verità farisaica, degna di chi ha servito il Pci e non l’Italia, la Diccì e non l’Italia. L’elettorato si starà chiedendo se nel patto stato-mafia non fossero coinvolti anche i comunisti, pardon i cooperatori rossi. Il cinismo del momento impone che il Pd sventoli il nome di Impastato, e che si dia a bere all’elettorato che Bersani incarni oggi la lotta alla mafia. E mica il Pci stava in Sicilia a pettinare le bambole o a tirare palline di pane ai colombi: quel Pci prendeva le tangenti dai mafiosi per edificare i nobili ideali del comunismo. Nell’ottobre del 2000, il Tribunale della Libertà s’esprimeva così a proposito degli indagati di Palermo: «Le cooperative rosse hanno stipulato accordi con i più alti vertici dell’associazione mafiosa per la gestione degli appalti pubblici». Sappiamo benissimo che le responsabilità penali sono personali, ma il Tribunale aveva usato il termine “cooperative rosse” alla stessa stregua di mafia o ‘ndrangheta. Non venivano chiamati in causa i singoli, bensì un sistema associativo contemplato nella Costituzione (le cooperative). Decollava ai più alti livelli istituzionali un tamtam per mettere una pezza a questa vicenda. Quasi che indagare sulle coop rosse fosse una sorta di lesa maestà. Nel febbraio 2001 venivano addirittura sequestrati beni e patrimoni delle coop. Un imprenditore del Pci venne considerato «anello di congiunzione tra mafia e Ds» e accusato di «concorso in associazione mafiosa».
di Ruggiero Capone