Il patto stato-mafia nell'era giolittiana

venerdì 16 novembre 2012


Gaetano Salvemini aveva appellato Giolitti come «ministro della malavita». Ma la rilettura delle missive, inviate ai vari ministri dell’Interno dai regi prefetti attivi nelle città del Mezzogiorno, evidenzia come nei primi anni del Regno d’Italia era stata già fotografata la situazione attuale. E cioè, quando nei capoluoghi meridionali venivano comandati dei prefetti esterni al contesto sociale, era loro opinione che lo stato italiano non permeava la società del Sud, dell’ex regno borbonico. Che il nuovo regime venisse usato come una sorta d’involucro atto ad avvolgere un enorme contenuto ignoto alla gente non del posto. Rammentiamo al lettore che oltre tremila società segrete erano sopravvissute al passaggio dal Borbone al Savoia, soprattutto contavano su addentellati ovunque, anche nelle varie caselle di potere del nuovo assetto unitario. Le cosiddette “società segrete” garantivano che alcun esterno sconvolgesse gerarchie, scale sociali, regole interne ed occulte democrazie che regolavano i rapporti tra clan, famiglie, uomini, donne. Di fatto osteggiavano i prefetti, perché le nuove regole non permeassero la società meridionale.

È facile notare che durante i primi anni del Regno d’Italia i prefetti si dimostravano il terzo incomodo nei cosiddetti patti stato-mafia. Nel cosiddetto “periodo liberale” (dall’Unità a fine ‘800) l’istituto del prefetto nel Sud veniva salutato dai giuristi come argine ad eventuali straripamenti di potere sia baronale che delle società segrete. Giuseppe Saredo affermava «Ogni Prefetto è un Ministro nella provincia che governa», Teodosio Marchi aggiungeva «Se si ha però riguardo al fatto che la legge concede al Prefetto ciò che non concede al Ministro, che gli concede cioè di fare in caso di urgenza i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio (articolo 3 della legge comunale e provinciale del 1865), si sarebbe tentati a concludere che un Prefetto è nella provincia qualcosa di più di un Ministro nello Stato». Saredo e Marchi (entrambi giuristi e poi politici) avevano toccato con mano l’architrave che reggeva il patto tra la politica (lo stato) e le organizzazioni segrete preesistenti all’Italia unitaria.

Ed i giuristi, al pari di Gaetano Salvemini, speravano che la prefettocrazia potesse infrangere il “patto stato-mafia”. Una speranza basata sul dato inoppugnabile che, nel periodo post unitario, era frequente la nomina a Prefetto tra personalità politiche di primo piano: Alfonso La Marmora fu Prefetto di Napoli; Luigi Torelli (Ministro dell’Agricoltura nel 1864-1865) resse le Prefetture di Bergamo, Pisa, Palermo, Venezia; Giuseppe Gadda (Ministro dei lavori pubblici nel 1869-1873) fu Prefetto di Foggia, Perugia, Padova e Roma; il marchese di Rudinì (Ministro dell’Interno nel 1869 e Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1891-1892 e nel 1896-1898) fu Prefetto di Napoli; Guglielmo Capitelli (già sindaco di Napoli) fu Prefetto di Bologna e L’Aquila; il marchese Alessandro Guiccioli (già deputato e sindaco di Roma) fu Prefetto di Firenze e di Torino. L’atto di nascita del “Prefetto italiano” è il regio decreto del 9 ottobre 1861 n. 250, secondo cui i governatori delle province avrebbero dovuto assurgere a Prefetto, gli intendenti di circondario a sottoPrefetto e i consiglieri di governo a consiglieri di prefettura. Nella neonata Italia unita non vi fu legge riguardante l’amministrazione periferica dello Stato che non chiamasse in causa il Prefetto.

Ma, a parte i grandi nomi appena citati, la maggior parte dei prefetti erano uomini di carriera, spesso desiderosi di non finire retrocessi a causa d’incomprensioni con i potentati locali. E siccome il Prefetto veniva nominato con decreto reale, su deliberazione del Consiglio dei Ministri adottata sulla proposta del ministro dell’Interno, con lo stesso procedimento era traslocato da una sede all’altra: e se qualche vocina malevole avesse raggiunto la Capitale, il trasferimento avrebbe previsto una sede molto meno prestigioso. Così la scelta dei Prefetti avveniva, fino a fine ‘800, nominando nelle città più importanti degli eminenti uomini politici (denominati prefetti politici) e nelle sedi minori i funzionari provenienti dalla carriera prefettizia (prefetti amministrativi o di carriera). Agli inizi del secolo ‘900 la scelta cadde prevalentemente sui funzionari della carriera prefettizia. E non possono certo finire nel dimenticatoio le missive che i vari prefetti, non originari del Mezzogiorno, inviarono ai ministri dell’Interno: scrivevano da Palermo, Catania, Catanzaro, Crotone, Reggio-Calabria, Potenza, Lecce, Foggia e Napoli, per segnalare la difficoltà dello stato a permeare il territorio.

Quindi parlavano delle pressioni d’autorevoli e ricchi aristocratici locali con parentele ed amicizie in politica: si trattava di signorotti che cercavano d’orientare per il meglio le scelte dei prefetti, affermando di dare questi consigli per il bene stesso del prefetto. E così scopriamo che, un prefetto sabaudo di stanza a Catanzaro scriveva di sentirsi in una terra ostile e straniera, e che i regi Carabinieri poco o nulla potevano, che ogni informazione era gestita dai poteri locali. In una di queste missive si certifica che nel solo catanzarese erano attive ben 30 associazioni segrete, unici cuscinetti tra stato e anti-stato. Soprattutto, la trattativa tra il nuovo stato e i banditi latitanti si poteva avverare attraverso buoni rapporti con alcuni nobili vicini alle “associazioni segrete”. Qualche anno dopo, quando i giornali parlarono di “Colpo mortale alla mafia” inferto dal prefetto Mori (correva il 1905 ed era il primo rastrellamento Mori, il secondo avvenne durante il Fascismo) lo stesso dichiarò ad un suo collaboratore «Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse.

Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero». Mori agiva in Sicilia, ma nel resto del Sud la situazione non era dissimile. Ma, tornando alle missive dei prefetti, corre obbligo narrare della risposta dei ministri, che esortavano le autorità prefettizie ad andare di calma e gesso per concorrere con i poteri locali a coronare la fusione delle province degli stati preunitari in un grande stato nazionale. Succedeva che l’umbro Filippo Gualtiero, prefetto di Napoli ben poco potesse nell’ex capitale borbonica, dove i suoi predecessori erano stati costretti a sentirsi ripetere da un certo notabilato che «era usanza ascoltare i gumurri per mantenere l’ordine nei quartieri».

I gumurri erano i guappi di quartiere (la gumurra è la tipica giacca corta spagnola) ed attraverso questi soggetti la polizia borbonica monitorava l’ordine pubblico. E lo stato unitario, volente o nolente, dovette accordarsi con i gamorri (padri della camorra) per evitare il perpetuarsi delle rivolte. L’apice venne toccato con i prefetti giolittiani: per il “ministro della malavita” il compito principale dei prefetti era monitorare la politica, le elezioni. Era stato da poco introdotto il suffragio universale maschile (le prime elezioni politiche con la nuova legge si tennero il 26 ottobre 1913). Il corpo elettorale era rappresentato da un’esigua minoranza della popolazione. La lotta politica non si svolgeva fra partiti politici organizzati, ma fra consorterie e gruppi d’interesse. Il prefetto giolittiano doveva portare acqua al mulino di Giolitti, la ragion di stato prevedeva di trattare con chiunque servisse alla causa, mafia compresa.


di Ruggiero Capone