Province e Regioni, mali da estirpare

giovedì 1 novembre 2012


La questione dei nuovi assetti istituzionali non è nell’agenda di questo governo, come non lo sarà, a maggior ragione, dopo le prossime elezioni nell’agenda del governo che (non) verrà. Gli italiani saranno dunque sempre alla ricerca di ciò che non potranno mai ottenere: un’organizzazione dello Stato moderna e funzionale ai tempi presenti, enormemente cambiati rispetto a quando gli assetti attuali furono disegnati. 

Da quando la nostra Costituzione è entrata in vigore la popolazione italiana è aumentata del 35%; importanti distretti industriali sono sorti in tutto il Paese; la conseguente perdita di terreno agricolo ha di fatto avvicinato zone periferiche di singoli comuni tanto da consigliare la presa d’atto dell’esistenza di città metropolitane. D’altro canto lo spopolamento di piccoli comuni, decentrati e in alta collina pone problemi di controllo del territorio soprattutto dal punto di vista ambientale. 

In concomitanza a questi intervenuti cambiamenti, appena accennati, gli italiani si trovano nel presente a fare i conti con vecchie e inattuali istituzioni, province e regioni, che nel tempo hanno evidenziato un consuntivo fallimentare. 

Ora, se un’intera nazione si trova alla soglia del fallimento, dopo decenni di crescita e benessere, quale si era registrata negli anni Sessanta, è anche perché è l’intero sistema sul quale si regge l’assetto dello Stato a essere non più adeguato alle necessità dei tempi presenti che necessitano di nuove strutture organizzative oltre, beninteso, a maggiori e più democratici controlli della popolazione sulle attività della politica ai quali proprio le istituzioni regionali e provinciali hanno abbondantemente disatteso.

Altri si cimenteranno sulla opportunità di modificare la nostra carta costituzionale. Ora e in questa sede, alla vigilia di importanti e maggiormente dannose riforme che questo governo si appresta a fare in materia, con lo stravolgimento dei confini provinciali, ciò che mi preme è dimostrare come sia possibile, invece, ottenere un buon governo del territorio tramite l’abolizione sia delle province che delle regioni.

Molto si è parlato e scritto nei mesi passati in merito all’abolizione delle province, altre opinioni sono poi recentemente emerse sull’opportunità di abolire le regioni a seguito dei recenti scandali. Ora prima che, come al solito, si formino fazioni contrapposte, ciascuna adducente i suoi buoni motivi a sostegno della propria tesi; al fine anche di evitare la inconcludenza per le necessarie riforme, sarà bene sgomberare il campo della discussione proprio abolendo alla radice i mali che ci affliggono. Senza cure palliative e senza uso di alcun placebo (come certamente si avviano a essere i nuovi accorpamenti provinciali) che, come noto, viene somministrato al malato in punto di morte quando le cure sono ormai inefficaci. Uno dei grandi cambiamenti che dobbiamo avere il coraggio di affrontare infatti, è quello di eliminare gli strati di interposizione politica e amministrativa che separano i cittadini italiani dalla progettazione di una iniziativa alla sua realizzazione, dalla trasparenza degli atti, dalla celerità con cui vengono esaudite le loro necessità, dalla chiarificazione circa ciò che è lecito da ciò che è vietato. Vale ricordare che il nostro territorio  presenta una forte densità di amministrazioni comunali che ebbero origine nei primi due secoli del trascorso millennio, al fine di abbattere le schiavitù imposte dal feudalesimo. Tale forma di autogestione, il comune, è ancora oggi alla base del nostro ordinamento amministrativo.

Precisata la valenza e l’importanza del comune quale istituzione primaria del governo dei territori, che dovrà essere dotata di ulteriore autonomia, possiamo fare riferimento a istituzioni esistenti per razionalizzare un futuro amministrativo più agile.  

Conosciuta da tutti è la Banca d’Italia. Questa si articola su una sede centrale ubicata nella capitale e si avvale di filiali, una per ogni regione, altre nei principali capoluoghi di provincia. Così mentre il Governatore e il Direttorio della Banca dettano la politica della medesima, i tecnici dirigenti e funzionari delle filiali la applicano. Sembra con successo, ormai da decenni.

Ed allora, come si vede, allo stesso modo auspicherei l’articolazione del nostro futuro amministrativo. Gli organi di governo centrale dettano le politiche, ad esempio ambientali o sanitarie o scolastiche, attuate poi da sedi distaccate, prettamente tecniche, dislocate sui territori. Del resto l’impalcatura generale dello Stato non si avvale già dei prefetti, suoi rappresentanti sul territorio? Non si avvale delle sedi distaccate della protezione civile, sui provveditorati allo studio e altro ancora? A cosa quindi mantenere in vita organismi e strutture pletoriche come province e regioni che hanno dato fino a questo momento dimostrazione di inefficienza e sperperi senza fine?

Vogliamo mantenere ancora un improduttivo parassitismo politico e clientelare? O non vogliamo piuttosto aumentare l’efficienza della macchina amministrativa?

È intuitivo il beneficio che conseguirebbero cittadini e imprese nello svolgimento delle loro attività in una ipotesi siffatta. L’interlocutore principe nei loro riguardi sarebbe nuovamente il comune, la velocità della conclusione dei rapporti registrerebbe una accelerazione fortissima, le responsabilità sulla costruzione e manutenzione degli edifici pubblici (scuole, strutture sanitarie ecc...) e della rete stradale sarebbe chiara e univoca. Allo stesso modo, questi organismi tecnici territoriali, articolati in dipartimenti specialistici, dovranno attendere al buon funzionamento dei servizi. Il personale tecnico attualmente in attività all’interno delle province e delle regioni sarebbe utilizzato per i nuovi organismi con migliore profitto generale e, nel contempo, nuove categorie professionali, giovani e qualificate, verrebbero innestate nelle nuove strutture  così da consolidare e rendere efficiente rinnovamento. 

A riforma avvenuta i cittadini e le imprese parleranno con pochi e ben identificati interlocutori e gli stessi sindaci e amministratori comunali vedrebbero semplificata la loro azione proprio in virtù dell’abbattimento di organismi a loro attualmente sovrapposti.

È allo stesso modo intuitivo come risulterebbe migliorato il conto economico dell’apparato statale e come sarebbe possibile ottenere risorse per una nuova epoca di sviluppo.

Terminerebbe l’epoca del regionalismo, delle divisioni e degli statuti speciali. L’equiparazione dei cittadini italiani accompagnata da definite assunzioni di responsabilità costituirebbe il lievito per una nuova stagione di rinascita.

Un’Italia che voglia uscire dal pantano in cui è stata trascinata deve avere il coraggio di operare mutamenti significativi. Estirpare due tra le tante cause dei nostri mali ne costituirebbe un primo ma significativo passaggio.


di Giuseppe Blasi