Corruzione, una legge al ribasso

martedì 30 ottobre 2012


È sempre interessante studiare la nascita dei disegni di legge, soprattutto quando vengono presentati con tanta enfasi da un ministro, che lei sì che i tribunali li frequenta, come se avesse finalmente trovato la soluzione al problema millenario della corruzione. La prima sorpresa, infatti, è che il Ddl 2156-B, approvato in Senato il 17 ottobre, ha la B, appunto, perché è solo una modifica del pari numero già approvato dallo stesso ramo del Parlamento il 15 giugno dell’anno scorso, durante il precedente governo, e meglio noto come Ddl Alfano-Brunetta. Non solo l’ultimo testo risulta quasi uguale a quello approvato dalla Camera, il 14 giugno 2012, che aveva recepito le modifiche elaborate dalla Commissione anticorruzione istituita ad hoc. L’unica modifica sostanziale recente, derivata, forse, da chi sì che li frequenta i tribunali, è di maggiore favore per i magistrati fuori ruolo.
Salta subito all’occhio che il secondo testo è lungo circa il triplo del primo, ma questo significa forse che sarà tre volte più efficace?
Gli inasprimenti di pena per i reati relativi, infatti, sono pressoché identici a quelli già previsti l’anno scorso. Le differenze sono semmai più favorevoli ai corrotti. Il reato di concussione, infatti, non si applica più agli incaricati di un pubblico servizio, e non è dato capire perché. Il nuovo reato introdotto, volgarmente detto di concussione per induzione (il più comune statisticamente, visto che è raro che il concussore costringa con la forza a farsi pagare la mazzetta) ha, invece, una pena, e relativa prescrizione, ridotta. Come se non bastasse, ora chi viene concusso, ma non costretto, è punito con il carcere, con l’ovvia conseguenza che ben pochi si sogneranno di denunciare i concussori, che resteranno più facilmente impuniti. Nel Ddl Alfano-Brunetta, inoltre, era prevista un’aggravante per i casi che provocavano i maggiori danni economici allo Stato, ma stranamente è stata eliminata, così come l’aumento delle pene per chi falsa le gare pubbliche e per le frodi dei fornitori delle pubbliche amministrazioni. Positiva, e già prevista dal primo testo, la tutela per i dipendenti che denunciano il malaffare, per evitare facili ritorsioni.
Anche le due principali presunte novità lasciano piuttosto perplessi. Il traffico di influenze illecite, che dovrebbe punire chi fa da intermediario per le tangenti, era di fatto già punito come concorso in corruzione o concussione, mentre ora non si capisce bene cosa dovrebbe punire, visto che è lasciato molto vago e quindi alla discrezionalità, mai positiva, del giudice, il quale può sbizzarrirsi contro i lobbisti, che semmai andrebbero regolamentati e non demonizzati. Il massimo, però, lo raggiungono con la grande asserita novità della corruzione tra privati, ossia un reato identico a quello introdotto nel 2002 (Governo Berlusconi II), a cui hanno semplicemente cambiato il nome perché si vede che faceva più effetto così.
Quanto, poi, alla delega per emanare un decreto legislativo che finalmente disciplini la tanto di moda incandidabilità dei politici condannati, non è cambiato nulla dal testo già approvato l’anno scorso. Semmai c’è da dire che se alla Camera lo avessero approvato senza modifiche, oggi forse il decreto sarebbe già stato emesso, ma tant’è.
Fin qui la repressione. Anche dal lato della prevenzione, però, non vedo significativi sviluppi che lascino ben sperare. Sono stati ampliati i poteri concessi alla Commissione anticorruzione, “Civit”, già introdotta con il primo Ddl. Ci mancava proprio un’altra costosa Autorità (per ora costerà 4 milioni), ma ce l’ha imposta l’Onu per fare degli utilissimi monitoraggi e pareri, oltre al Piano nazionale per la prevenzione della corruzione, che certo sarà risolutivo. 
Una novità è l’individuazione, in ogni amministrazione pubblica, del dirigente responsabile della prevenzione della corruzione, che risponderà personalmente e disciplinarmente delle violazioni del suo ufficio. Potrebbe essere positivo se lo indurrà a controllare meglio, un po’ meno se sarà solo un altro ingranaggio da ungere. Piuttosto velleitario che si pensi, poi, di prevenire il fenomeno con tanti bei progetti di formazione dei dipendenti pubblici, a cui sarà spiegato, nel caso avessero avuto dubbi in proposito, che la corruzione non si fa perché non è bello. A doppio taglio mi sembra poi l’obbligo di rotazione dei dirigenti, perché si rischia di moltiplicare tempi, burocrazia e mazzette pagate.
C’è, poi, un ampliamento, decisamente positivo, degli obblighi di trasparenza, con relativa pubblicazione web, di tutte le attività della pubblica amministrazione e di chi ci lavora, che prosegue sulla linea della digitalizzazione tracciata dalla riforma Brunetta. Purtroppo, non sarà immediatamente efficace perché rimanda a un decreto legislativo, che, se sarà approvato, dovrebbe rendere finalmente pubblici molti dati interessanti sui politici, inclusa la situazione patrimoniale, anche di parenti e affini, pre e post-elettorale, dei dirigenti e dei consulenti vari.
Utile la norma, già prevista nel primo Ddl, che i dipendenti pubblici non possano cambiare casacca e, per i 3 anni successivi, andare a lavorare da privati con cui hanno trattato prima, onde evitare la corruzione postuma. Un po’ troppo lasca e ancora da definire con un decreto legislativo, invece, la disciplina dei “trombati” piazzati nelle aziende a partecipazione pubblica, che non solo causano una lievitazione folle dei costi, ma portano troppo spesso degli incapaci in posti chiave. Il divieto di affidare incarichi, infatti, dura solo un anno, vale solo per posti da dirigente e di vertice (non quindi gli innumerevoli consiglieri d’amministrazione e dipendenti vari) e per aziende che forniscono servizi pubblici (escluse quindi, per esempio, le fondazioni varie, incluse le bancarie), e non si applica ai vari candidati non eletti alle elezioni, soprattutto locali, dove il fenomeno è notorio e dilagante.
Mi preoccupa non poco, poi, la disciplina che si preannuncia per l’assegnazione di incarichi dirigenziali pubblici e in commissioni d’esame o d’appalto, che sarà vietata a chi ha subito condanne per i reati contro la pubblica amministrazione. Se in linea teorica è doveroso, trovo pericoloso che valga già per le condanne in primo grado non passate in giudicato, perché si scardina un principio imprescindibile in uno Stato di diritto, soprattutto come il nostro, dove gli errori giudiziari si sprecano, per tacer d’altro.
Positiva, poi, l’introduzione di un codice di comportamento per i dipendenti pubblici per chiarire ai fini disciplinari, nel caso sempre avessero dubbi, quali azioni a rischio corruzione sono vietate, ma soprattutto i doveri di servizio, inclusa la qualità e la diligenza. Mi sembra assurdo, però, che il compito di scrivere il codice per i magistrati sia affidato all’Anm, anziché al Csm. Non che le porte girevoli tra questi due non siano note, ma è un po’ come se avessero affidato alla Fiom il compito di scrivere il codice di comportamento dei dipendenti Fiat.
A proposito di giudici, però, il trattamento di favore vero arriva con l’unica modifica introdotta nell’ultimo testo approvato al Senato sull’annoso problema dei fuori ruolo, ossia quei magistrati che non fanno i giudici perché distaccati per lustri in altri incarichi pubblici, con annesso doppio stipendio e avanzamento di carriera. Ebbene, finalmente il DDL, nel testo approvato a giugno alla Camera, aveva previsto un limite temporale di 5 anni per l’incarico fuori ruolo, con relativo obbligo di tornare per almeno altri 5 anni in tribunale, e un limite massimo complessivo di 10 anni, ma soprattutto aveva eliminato il doppio stipendio.
Abbiamo scherzato. Il nuovo testo limita il fuori ruolo solo agli incarichi di vertice ed altri da individuare con l’ennesimo decreto legislativo. Non si applica, invece, se si mettono a far politica, né se vanno a fare i magistrati nelle corti internazionali. Resta solo il limite massimo dei 10 anni, ma il collocamento fuori ruolo non può danneggiar loro la carriera, che continua a correre verso la massima anzianità come nulla fosse, e naturalmente è sparito il divieto di doppio stipendio, con buona pace dei sacrifici chiesti ai cittadini “normali”.
In conclusione, a parole, c’è tanta fretta di combattere la corruzione, ma nei fatti le modifiche apportate al Ddl Alfano-Brunetta, sia alla Camera che di nuovo al Senato, rendono ancora lontana la conclusione e l’emanazione dei necessari decreti attuativi, per un risultato, peraltro, che non sembra aggiungere molto a quanto era già previsto ed in alcuni casi lo peggiora persino. Vanitosamente e politicamente comprensibile appropriarsi della paternità di un lavoro altrui, ergendosi a paladini dell’antipolitica, ma ne valeva tecnicamente la pena?

di Barbara Di Salvo