domenica 23 settembre 2012
Can che abbaia non morde. Un adagio che vale anche nei rapporti diplomatici, tanto più quando questi sono a sfondo commerciale, e coinvolgono il passaggio di tanto, tantissimo denaro. Si spiega così come l’Europa, sempre pronta a bacchettare le pratiche commerciali scorrette della Cina, rappresenti nella realtà dei fatti una minaccia risibile. Anzi, chi più critica apertamente la concorrenza sleale del fu Celeste Impero, risulta poi essere tra i principali clienti di quel mercato che tanto depreca. E gli esempi in questo senso hanno davvero del paradossale.
Un po’ come il caso sollevato dall’onorevole Claudio Morganti, eurodeputato della Lega Nord, che al ritorno dalla pausa estiva si è reso conto del fatto che i nuovi telefoni dati in dotazione agli uffici sono tutti di fabbricazione cinese. Marchiati con il logo dell’azienda americana Cisco, ma realizzati in Cina. Così come gli schermi di molti personal computer, anch’essi marchiati da un’azienda americana (la Dell, stavolta) ma recanti la dicitura Made in China. Idem per le stampanti, prodotti dalla sudcoreana Samsung ma, indovinate un po’?, costruite in Cina. Morganti ha interpellato l’Itec, la direzione generale che si occupa di fornire assistenza tecnologica all’Europarlamento, dalla quale gli è arrivata la rassicurazione circa il preciso impegno della direzione affinché «nel proseguire il rinnovamento della telefonia del P, si riapra, nel rispetto delle regole, la concorrenza fra i diversi produttori». «Mi è stato detto, inoltre, - dicee l’eurodeputato del Carroccio - che c’erano degli obblighi di “carattere tecnico assolutamente ineludibili”, a cui dover rispondere, e che “le regole sono state rispettate”».
Tutto normale? Mica tanto. La diffidenza verso la produzione cinese non è affatto immotivata. Perché la Cina non è un partner commerciale come gli altri. Il sistematico sfruttamento di manodopera sottopagata, priva della benché minima tutela sindacale, nonché la totale mancanza di normative circa la sicurezza sul lavoro, ne fanno in prima istanza un concorrente sleale. Specie per i produttoti europei, sottoposti al contrario a normative rigidissime su tutti questi fronti. Ma al sistema economico e produttvo cinese vengono imputate anche contraffazione, delocalizzazione, barriere commerciali e dumping, sia commerciale che monetario.
Il caso dei telefoni “cinesi” all’europarlamento è soltanto la punta dell’iceberg. Ben più eclatante, ad esempio, il fascicolo aperto qualche settimana fa dalla Commissione europea nei confronti dell’industria cinese del solare e del fotovoltaico. L’accusa, mossa da EuProSun, l’associazione dell’industria solare-fotovoltaica europea, è proprio quella di dumping, pratica in aperta violazione delle norme stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio: grazie all’utilizzo indiscriminato di fondi pubblici statali, la Cina starebbe tentando di invadere il mercato europeo con prodotti sottocosto, allo scopo di sbaragliare slealmente la concorrenza locale e conquistare una posizione dominante. E per la Commissione, si tratta di un’accusa sufficientemente credibile per disporre un’inchiesta ufficiale in merito.
Ma contro gli squilibri nei rapporti commerciali tra Cina e Unione Europea (il primo partner economico cinese a livello mondiale) si era espresso in maggio anche l’Europarlamento, votando a larga maggioranza la risoluzione proposta da Marielle de Sarnez, deputata francese dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa. Tra le richieste avanzate all’Unione in quella sede, anche la creazione di un organismo preposto al controllo degli investimenti cinesi nelle imprese europee e degli acquisti di debito sovrano europeo, sul modello di quello già esistente negli Stati Uniti. Perché la Tigre Asiatica è una locomotiva economica che avanza sbuffando sui binari di un mercato truccato.
A cominciare dalle barriere commerciali. Secondo l’ultimo rapporto della Camera di Commercio europea in Cina, il 43% dei manager delle imprese europee stabilite in Cina si considera discriminato dalle misure restrittive adottate nei confronti degli industriali stranieri. Nel 2010, sempre secondo la Camera di Commercio europea, a sentirsi discriminato era il 33% degli imprenditori.
Ma nel novero delle barriere commerciali vanno considerate anche le sovvenzioni e crediti all’esportazione concessi dallo stato alle aziende cinesi, i requisiti di certificazione nazionali spesso negati agli stranieri, e una normativa troppo fumosa per le esigenze di un mercato davvero aperto. Anche nel settore degli appalti pubblici le leggi non conformi alle norme internazionali, assiame alla mancanza di trasparenza e concorrenza, agiscono come fattori di esclusione.
Altro problema grave sono i trasferimenti di tecnologia e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. La maggior parte delle imprese che vogliono investire in Cina, infatti, operano nel settore high-tech. Ciononostante il governo cinese ostacola gli accordi di joint-venture con gli investitori stranieri, allo scopo di impedire che possano diventare azionisti di maggioranza nei settori chiave. Inoltre, il fatto che la proprietà intellettuale sia scarsamente tutelata, è sempre più un fattore di dissuasione per gli investitori europei.
Poi un paradosso pericolosissimo: la crescita delle esportazioni cinesi verso l’Europa va di pari passo con il miglioramento della qualità dei prodotti contraffatti. Fra tutte le merci fabbricate in violazione dei diritti di proprietà intellettuale sequestrate dalle dogane europee nel 2010, l’85% proveniva dalla Cina.
Altro enorme ostacolo: la politica protezionistica cinese sulle materie prime, in particolare sulle cosiddette terre rare, ovvero un gruppo di 17 minerali largamente impiegati per la realizzazione di prodotti altamente tecnologici. La Cina, che da sola ricopre il 97% della produzione mondiale, ha recentemente limitato le sue esportazioni di terre rare, giustificando la decisione con il fatto divoler dare priorità alla domanda interna. Ma le pratiche scorrette dei cinesi sulla gestione delle materie prime sono già state oggetto di impugnazione davanti all’organo di risoluzione delle controversie dell’Omc, che nel luglio dello scorso anno avevano portato ad una condanna di Pechino.
Infine, il dumping monetario, il vero grande “doping” dell’economia cinese. La sottovalutazione forzata e la non convertibilità dello yuan, la moneta nazionale cinese, solleva una questione gravissima e senza precedenti. Proprio perché lo yuan è stato sottovalutato, la Cina è stata in grado non solo di accumulare l’equivalente di quasi 3.200 miliardi di euro in riserve di valuta estera ed espandere i propri investimenti in Europa, al fine di acquisire tecnologie avanzate, ma anche di acquisire una parte consistente del debito sovrano dei paesi europei. Impossibile sapere in quale percentuale, dal momento che non vi è alcuno strumento per misurare la presenza cinese nel nostro debito.
di Luca Pautasso