sabato 22 settembre 2012
È passato quasi inosservato l’aggiornamento del Def – documento di economia e finanza – adottato dal Consiglio dei ministri, ma qualsiasi governo politico non l’avrebbe passata così liscia. Si può perdonare a un governo di tecnici, con un economista presidente del Consiglio e uno al Tesoro, di sbagliare così platealmente le previsioni macroeconomiche del paese, sottovalutando addirittura della metà il calo del Pil nell’anno in corso, e nonostante autorevoli istituzioni internazionali avessero indicato per tempo stime più corrette?
Come volevasi dimostrare, le stime governative si sono dovute allineare alle previsioni più realistiche di Confindustria, solo due mesi fa bollate sdegnosamente come pessimistiche e addirittura accusate di minare la credibilità dell’esecutivo all’estero. Quest’anno, dunque, il Pil dovrebbe calare del 2,4% e non dell’1,2, come previsto nel Def non un secolo fa, ma il 18 aprile scorso. Il sospetto è che sia una stima ancora troppo ottimistica e che questo 2012 possa concludersi con una perdita di ricchezza più vicina al 3% che al 2. Ma perché il governo ha sottovalutato la recessione? Delle due l’una: o ha colpevolmente sottovalutato gli effetti depressivi delle sue politiche, oppure ha consapevolmente tentato di nascondere la realtà.
Del parziale mea culpa pronunciato qualche giorno fa dal premier, quando aveva ammesso che alcune misure adottate dal suo governo, sebbene necessarie, hanno certamente contribuito ad aggravare la crisi, non c’è più traccia. Stando alle spiegazioni fornite, il peggioramento sarebbe dovuto a ragioni esclusivamente esterne: «Le condizioni congiunturali dell’economia mondiale e l’impatto della crisi finanziaria dell’euro», il rendimento ancora troppo elevato dei titoli di stato, che come sappiamo Monti imputa in gran parte alle incertezze dei mercati sulla irreversibilità della moneta unica piuttosto che alle debolezze italiane.
Male anche il rapporto deficit/Pil, che nel 2012 non scenderà sotto il 2,6%, oltre 1 un punto in più del previsto, a causa del costo del debito ma anche per le minori entrate rispetto alle attese, nonostante tutte le stangate fiscali. Il pareggio di bilancio, sia pure in termini strutturali, cioè al netto della congiuntura, sarebbe comunque confermato nel 2013 senza bisogno di ulteriori manovre, se non una seconda fase di spending review per reperire i 6,5 miliardi che servono a scongiurare del tutto l’aumento dell’Iva, per ora solo rinviato al luglio del 2013.
Il governo è stato anche costretto ad ammettere che almeno nominalmente l’Italia resterà in recessione anche nel 2013, con un -0,2% che ribalta l’iper-ottimistica stima di aprile (+0,5%). Ma solo a «causa dell’effetto trascinamento» del forte calo del 2012, precisa Monti. Già il 2013 «sarà un anno di crescita», grazie a una leggera ripresa nella seconda metà dell’anno. Ciò è sufficiente a far dire al premier che «inizia a vedersi la luce in fondo al tunnel».
Se per l’esecutivo l’attuale recessione non è stata aggravata dalle sue scelte di politica fiscale, la lieve ripresa prevista nel 2014-2015 (+1,1% e +1,3%) sarebbe invece merito degli «effetti positivi delle riforme strutturali» introdotte. Certo, se ad aprile il governo non ha saputo centrare la stima dell’anno in corso, figuriamoci che valore possono avere le stime di oggi per 2014 e 2015. Anche a prenderle per buone, sembrano troppo simili agli stentati +1% che l’economia italiana ha fatto registrare negli anni pre-crisi, quando già si parlava di declino, e dunque non lasciano immaginare un superamento dei problemi strutturali del paese. Sembra inoltre una crescita insufficiente a garantirci un percorso credibile di rientro dal debito come richiesto dal fiscal compact.
Il governo ha confermato di voler affiancare alla strategia che punta su corposi avanzi primari – che in presenza di scarsa crescita potrebbe richiedere nuove manovre recessive, con il rischio di entrare in una spirale – un programma di dismissioni del patrimonio dello stato, sia immobili che partecipazioni pubbliche, per incidere direttamente sullo stock di debito. Ma l’entità dell’operazione – un punto percentuale di Pil l’anno, una quindicina di miliardi – potrebbe non essere sufficiente. La riduzione del debito pubblico così prevista – dal 123,3% nel 2012 a 122,3% nel 2013, 119,3% nel 2014 e 116,1% nel 2015 – potrebbe essere troppo lenta, anche considerando l’eventualità di congiunture sfavorevoli.
È vero che se l’Italia non continuasse nella strada intrapresa da Monti, si troverebbe ben presto di nuovo sotto l’attacco dei mercati e non credibile in Europa, ma la sensazione è che non basti tenere il pilota automatico sulle coordinate tracciate dal professore. Con una pressione fiscale ormai al 55%, sottraendo il sommerso, e un total tax rate sulle imprese del 68%, occorre urgentemente alleggerire il carico, tagliando più incisivamente la spesa pubblica e ridefinendo il perimetro dello stato (le recenti “sprecopoli” regionali dimostrano che di grasso ce n’è ancora molto), e avere più coraggio sulle dismissioni per abbattere il debito.
di Federico Punzi