Romney e la dittatura dei sussidiati

mercoledì 19 settembre 2012


Spesso si può affermare una verità solo al prezzo dannatamente salato del politicamente scorretto, ma per chi fosse interessato ad approfondire nel merito, e con onestà intellettuale, le parole carpite a Romney dalla telecamera di un cellulare nascosto, il candidato repubblicano ha centrato il tema politico dei nostri tempi, il discrimine che orienta le scelte dei governi, e degli elettori, nelle nostre società. Non sorprende che parlando ad alcuni facoltosi sostenitori durante una cena privata si sia lasciato andare ad un linguaggio molto diretto, estremizzando i suoi concetti per renderli comprensibili, come capita a chiunque.

È ipocrita imputargli l’imprecisione dei dati statistici o la ruvidezza delle sue generalizzazioni. Considerando il contesto politicamente “amichevole”, è ovvio che non abbia calibrato il suo messaggio per un pubblico vasto. Riassumere il senso del suo discorso nella frase “i poveri non mi interessano, tanto votano Obama”, o “chi sta con Obama non paga le tasse”, è pura mistificazione, spesso inconsapevole, frutto del copia-incolla praticato nelle redazioni dei media più “autorevoli”. Può piacere o no, ma il tema posto da Romney è quello della dipendenza di una sempre più rilevante fetta della popolazione americana dai soldi del governo e delle questioni da ciò derivanti: se rappresenti o meno una minaccia per una nazione fondata sulla libertà e la responsabilità individuali e in che modo debba comportarsi in campagna elettorale un candidato alla presidenza portatore di un approccio opposto.

Romney stava spiegando ai commensali le sue strategie elettorali, in particolare perché ha scelto di concentrarsi sul 5-10% di elettori indipendenti, o che nel 2008 hanno votato Obama ma oggi si dichiarano delusi dai risultati della sua presidenza, piuttosto che gettarsi alla conquista della base elettorale del suo avversario, voti che ritiene persi in partenza. Ha ammesso infatti che il presidente uscente parte da numeri enormi, perché può contare su una gran massa di persone, il 47% a suo dire, che siccome «dipendono dal governo» voteranno per Obama «in ogni caso». Persone «che si credono vittime, che credono che il governo abbia il dovere di provvedere a loro, che credono di avere diritto all’assistenza sanitaria, al cibo, alla casa, a quello che volete. E che voteranno per questo presidente in ogni caso», dal momento che il messaggio dei repubblicani è l’esatto opposto, punta cioè sulla necessità che le persone si assumano maggiori responsabilità.

La cifra del popolo dei “sussidiati” che voteranno comunque per Obama è arbitraria, così come non è affatto scontato che coincida con quel 47% di americani che di fatto non pagano l’imposta sul reddito personale, ma è indubbio che questi elettori non sono molto sensibili alla proposta di abbassare le tasse e che il fenomeno della “dipendenza” dal governo ha una consistenza numerica elettoralmente non trascurabile. Sono in gioco due concezioni alternative del ruolo del governo: «Crediamo in una società incentrata sul governo che elargisce sempre più benefit, oppure in una società fondata sulla libera iniziativa, in cui le persone hanno la possibilità di inseguire i propri sogni?».

La gaffe sta nel fatto che trattandosi di un video “rubato” Romney non si esprime con precisione nell’analisi e nei termini appropriati, ma è questo ormai il vero discrimine politico, non più le vecchie distinzioni destra/sinistra. Nell’epoca in cui viviamo lo stato ha accresciuto come mai nella storia le sue capacità di intervento nella società. L’incidenza della spesa pubblica sul Pil era del 7,5% negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso ed è progressivamente salita fino al 40% di oggi. Per non parlare dell’Italia, dove siamo passati da un 17,1% dei primi del ‘900 al 30% degli anni ‘20, al 40% della fine degli anni ‘70, fino al 50 e dintorni dal 1986 ad oggi. Ma è una tendenza consolidata in tutti i paesi occidentali: da una media di circa il 12% agli inizi del XX secolo a ben oltre il 40% di oggi, con punte vicine al 50. Ciò significa che gran parte delle nostre economie, imprese e singoli individui, dipendono direttamente o indirettamente dalla spesa pubblica, dalle risorse elargite dai governi.

Chiedersi che impatto ha tutto ciò sul processo democratico non è ozioso. È noto che in democrazia gruppi e singoli esprimono le proprie preferenze politiche con un occhio o due ai loro interessi particolari. Anzi, è il sistema di governo finora migliore nel garantire alla molteplicità di interessi di esprimersi ma allo stesso tempo di arrivare civilmente ad una sintesi, che per forza di cose accontenta molti ma non tutti, o meglio scontenta in misura accettabile molti, e pochi in modo inaccettabile.

Ma cosa accade se lo stato espande il proprio ruolo, nella misura e negli ambiti, fino al punto di alimentare una vera e propria dipendenza della maggior parte della popolazione dai suoi benefit? Non c’è forse il rischio che questi votino per chi garantisce loro la permanenza, se non l’estensione dei benefit, e che le classi politiche per restare al potere accrescano sempre di più il ruolo del governo e incoraggino la cultura della dipendenza? Insomma, lo spettro che un voto di scambio di massa possa inquinare il processo democratico aleggia. Forse nessuno meglio di noi italiani può sapere quanto sia fondato questo rischio e quanto sia difficile tornare indietro. Se tutti ormai ammettono che abbiamo esagerato con spesa pubblica e tasse, perché non riusciamo a invertire la rotta? Perché al dunque, quando dalle parole bisognerebbe passare ai fatti, i gruppi di interesse organizzati, così come i singoli elettori nelle urne, non vogliono rinunciare alla propria fetta di torta garantita dallo stato? Se Romney avverte questo rischio per gli Stati Uniti, dove spesa pubblica e pressione fiscale non sono comparabili alle nostre, in Italia potremmo aver oltrepassato una sorta di punto di non ritorno. Che succede quando più o meno la metà dell’economia nazionale dipende direttamente o indirettamente dalla spesa pubblica? Quante chance ha di prevalere un’agenda politica alternativa? Si può parlare di una “dittatura dei sussidiati”, di volontaria rinuncia alla libertà?

Poco male, si potrebbe obiettare, se lo stato provvede – in modo più o meno efficiente ed efficace a seconda dei paesi – ai nostri bisogni primari (e secondari). Probabilmente pochi di noi hanno piena consapevolezza delle prospettive che ci sono precluse a fronte delle sicurezze statali, di tutte le porte che la vita ci offre e che non apriremo mai, essendo la nostra strada tracciata in partenza da ciò che lo stato ci mette a disposizione.


di Federico Punzi