Perché Renzi attacca Veltroni

giovedì 13 settembre 2012


Qualche giorno fa, rispondendo ad Antonio Polito che, sul Corriere della Sera, lo incalzava su alcuni nodi tematici, Renzi ha risposto mettendo in fila tre proposte veltroniane: Unione europea politica (è di Veltroni l’idea di eleggere direttamente finanche il presidente del consiglio europeo); dismissioni del patrimonio pubblico (già presenti nel programma elettorale del Pd 2008); nuovo diritto unico del lavoro (teorizzato da Pietro Ichino e propagandato da Veltroni a più riprese e in molte occasioni, che perciò propose al giuslavorista la candidatura al Senato nel 2008).

Tre idee veltroniane vuol dire, politicamente parlando, che le proposte non sono originali, ma sono state avanzate organicamente, in un disegno politico coerente, da qualcun altro. E nel caso delle tre idee di Renzi apparse sul Corriere, quel qualcun altro è Walter Veltroni. Da alcuni mesi, dalla Leopolda 2 di novembre scorso, quelle tre idee sono entrate a far parte del disegno politico di Matteo Renzi, insieme a tante altre. Chi quelle idee veltroniane e il loro disegno ha condiviso, non può che gioirne.

Quale successo migliore potrebbe arridere a chi fa politica? D’altro canto, e intelligentemente, Renzi quelle idee fa proprie: perché sono le idee giuste per l’Italia. Non è da escludere che, quando giovedì parlerà a Verona, Renzi si “approprierà” di altre, svariate idee veltroniane. Provando a definire meglio un progetto di governo per l’Italia che somiglierà a quello del Lingotto. Anche nello stile Matteo Renzi guarda molto a Walter Veltroni, come pure nei riferimenti simbolici. Renzi è l’antitesi di Bersani, uno straniero confrontato a D’Alema, non c’entra nulla con la Bindi o con Letta, e neppure con Prodi. Ma ricorda moltissimo Veltroni. Ed è per questo che a lui riserva gli strali più acuminati. E talvolta un po’ sciocchi. Somigliare così tanto a Veltroni è un problema.

Perché la strategia d’ingaggio di Renzi è antitetica rispetto a tutto l’universo degli “schiacciapulsanti” (citazione renziana) di Roma. Anche verso chi ha elaborato le idee e la cultura politica e di governo che oggi Renzi prende in prestito. Per questo proprio a Veltroni sono riservati i colpi più duri. Renzi è come l’Enrico VII cantato nel Paradiso di Dante. La sua idea è scendere su Roma e rimettere a posto le cose, imponendo il suo modo di vedere le cose. È questo lo schema degli amministratori locali, di cui lui è l’imperatore ghibellino, contro i parlamentari romani. Un artifizio letterario (e una politica di incentivi verso i reclutati).

Non esiste difatti paese democratico dove la classe dirigente nazionale si sia formata per sommatoria di classi dirigenti locali. Ma Renzi ha scelto da tempo la sua tattica d’assalto e non è disposto a rinunciare al brand della rottamazione. Né a contaminarlo con altro. Verranno le sue proposte, verrà il programma, ma l’abbrivio e la conclusione di ogni ragionamento sarà sempre la stessa. Il fatto, però, è che i leader nascono nella storia e vivono di storia e solo così riescono a farla, la storia. Non esiste leader che si sia imposto in contrapposizione a tutto quanto gli era alle spalle: ogni leader, in ogni luogo e in ogni tempo, ha dovuto fare i conti col passato suo e di coloro di cui intendeva farsi leader.

Ci si può porre in continuità con la storia di riferimento, per farsi leader di una tradizione specifica. O si può provare ad essere revisionisti rispetto al proprio passato, provando a rileggere la propria storia. Ma i conti con la storia tocca farli. E più si pretende di essere discontinui, più bisogna andare a fondo nell’analisi e nella comprensione di ciò rispetto a cui si intende essere discontinui. Magari le primarie non sono il momento per ragionare di ciò. Ma prima o poi Renzi dovrà affrontare la questione e provare a risolverla. P.s. Si dice che Matteo Renzi abbia quel coraggio che Walter Veltroni non ha mai avuto.

Sarà... Quando nel 2007 il secondo governo Prodi era già caduto una volta e tutti i sondaggi davano elezioni imminenti e sconfitta più che certa per il centrosinistra, Veltroni lasciò il Campidoglio per andare a costruire il partito delle primarie, il Partito democratico. Poteva starsene lì (era stato da poco rieletto a furor di popolo), aspettare il disastro, fregarsene e poi essere acclamato come ricostruttore. Mollò tutto quello che aveva - ed era tanto - per buttarsi in una battaglia politica tutta in salita. Non sarà stato coraggioso. No. Forse aveva bevuto.

*Direttore di “Libertà Eguale” per gentile concessione di qdRmagazine.it


di Antonio Funiciello*