L'impresa investe solo nel mattone

giovedì 6 settembre 2012


Soltanto ieri l’Opinione faceva rimbalzare sulle sue pagine l’allarme di alcuni immobiliaristi molto pessimisti, secondo i quali il mattone in Italia rischierebbe di perdere il 50% del suo valore di mercato rispetto alle quotazioni eccellenti del 2007. Sul fatto che il 2012 possa davvero essere ricordato come un annus horribilis per gli investimenti edilizi, sono d’accordo un po’ tutti gli operatori del settore: secondo Giuliano Olivati, presidente della Fiaip di Bergamo (Federazione italiana agenti immobiliari professionali), la forbice standard della trattativa con gli acquirenti viaggia ormai tra il 15% e il 20% rispetto alle cifre richieste da chi vende. E, precisa Olivati, si tratta di una percentuale in lento ma costante aumento, che potrebbe davvero raggiungere i livelli paventati dalle cassandre.Si tratta di una tendenza che sembra preoccupare quasi tutti gli investitori, i quali temono una fotocopia nostrana della bolla immobiliare iberica. 

Tutti sono preoccupati di quel che potrebbe accadere, tranne una categoria precisa: gli imprenditori italiani, che ormai investono solo e soltanto più nel settore immobiliare. È quanto denuncia la Cgia di Mestre: «Negli ultimi dieci anni gli investimenti delle grandi imprese sugli immobili sono quasi raddoppiati, con un +91,7%, mentre quelli sui macchinari sono aumentati appena del 18,5%» dichiara Giuseppe Bortolussi, segretario dell’associazione che riunisce artigiani e pmi mestrini. Tutto questo mentre «l’inflazione, sempre nello stesso periodo di tempo - prosegue Bortolussi - è cresciuta del  24%». 

Ma che cosa sta succedendo, esattamente? È presto detto. Secondo un recente studio effettuato dalla Cgia, al 31 dicembre 2011 la quota di investimenti nel settore immobiliare da parte della grande impresa italiana è risultata essere superiore di quasi due volte e mezza rispetto a quella destinata a macchinari e attrezzature varie. In soldoni, ed è proprio il caso di dirlo, si parla di 240,45 miliardi di euro destinati all’acquisto di immobili contro 106,8 miliardi di euro effettivamente investiti nelle aziende stesse. Ma non solo: tra la fine del 2001 e il dicembre del 2011, gli acquisti di immobili sono aumentati per l’appunto del 91,7%, mentre gli investimenti in macchinari et similia sono cresciuti solo del 18,5%, a fronte di un +24% fatto segnare dall’inflazione. 

Si parla nello specifico degli investimenti delle grandi imprese, o meglio, precisano dalla Cgia, dei finanziamenti richiesti dalle grandi aziende alle banche in base alla destinazione economica dell’investimento. In breve, secondo secondo l’associazione artigiana di Mestre, «si è privilegiato in larga misura l’investimento di natura speculativa, trascurando invece di usare queste risorse per aumentare la produttività e quindi la competitività delle nostre grandi aziende in una fase storica, come quella verificatasi per gran parte dell’ultimo decennio, dove i prestiti bancari venivano elargiti a tassi di interesse favorevolissimi». Insomma, per non rischiare di finire a gambe all’aria, o anche solo per non farsi sfuggire lauti guadagni, gli imprenditori italiani in tempo di crisi hanno preferito lasciare da parte la produzione manufatturiera e riscoprirsi immobiliaristi. Con tutto il comprensibile danno che ne deriva al sistema produttivo nazionale.

Che agli imprenditori non convenisse più fare impresa, ma speculazione, ad esempio attraverso l’acquisto di buoni del tesoro, lo aveva detto agli inizi di agosto anche Mediobanca: «Nel 2011 il costo del debito è salito dal 5,6% al 6% mentre i tassi sui BTP decennali sono passati dal 3,4% al 4,9%. Il rendimento netto del capitale realizzato dalle imprese italiane, pari al 5,8% del capitale investito, è risultato insufficiente a remunerare il capitale proprio e di terzi impiegato nell’industria». Caso strano, rilevava una precedente indagine della Cgia, anche le banche hanno preferito investire in titoli anziché aprire nuove linee di finanziamento alle imprese: nello stesso periodo di tempo in cui la Bce erogava agli istituti di credito italiani 255 miliardi di euro per dare fiato all’imprenditoria, l’acquisto dei titoli di stato da parte delle banche nostrane ha subito un vero e proprio boom: +92,89 miliardi di euro, mentre i prestiti sono calati di 9,2 miliardi.

Da un lato, gli italiani possono tirare un sospiro di sollievo: se i grandi gruppi imprenditoriali si rifugiano nel mattone, è segno che nonostante il periodo nero del mercato l’immobile resta pur sempre una sicurezza. Dall’altro lato, la situazione è preoccupante: se davvero le stesse aziende preferiscono impiegare i propri soldi altrove, anziché su se stesse, chi dovrebbe dare loro fiducia? Le banche, lo si è visto, no di certo. E allora chi? Il governo? l’Europa?

Un motivo per essere ottimisti, però, forse c’è ancora: dopo l’avvento della crisi, sostiene la Cgia la situazione sembra aver imboccato il cammino inverso. Tra il 2010 ed il 2011, infatti, se gli investimenti immobiliari da parte della grande impresa sono scesi del 2,6%, quelli in macchinari sono aumentati dell’1,4%. Sembra insomma che, a fronte delle difficoltà, la parte virtuosa dell’imprenditoria nazionale abbia riscoperto la propria naturale attitudine al rischio. E, soprattutto, un po’ più di fiducia in se stessa.

«È da augurarsi – commenta ancora Bortolussi – che con le nuove misure che il governo sta predisponendo a sostegno delle imprese si tenga conto di chi, in una fase economica così difficile, ha continuato a credere nella propria azienda, a differenza di coloro che invece hanno pensato bene di riporre i propri investimenti nel settore immobiliare, abbassando la competitività del nostro sistema produttivo. Certo, generalizzare è sempre sbagliato, ma questa nostra analisi dimostra come, in questi ultimi dieci anni, le grandi aziende italiane si siano concentrate prevalentemente su attività speculative, invece di investire – conclude il segretario della Cgia – sul miglioramento dell’organizzazione produttiva che ci avrebbe consentito di recuperare quote importanti di competitività».


di Luca Pautasso