domenica 2 settembre 2012
Se non è una presa in giro, lo giudichi il lettore cos’è. Intervistata dal settimanale l’Espresso un paio di settimane fa, il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha detto di avere «molto a cuore» il problema delle carceri e la «drammatica situazione in cui versano», e assicura che si è fatto «il possibile, per ora». Che significa «quasi duemila posti in più con i nuovi padiglioni, tremila detenuti in meno, e altri duemila con gli arresti domiciliari».
Cinquemila detenuti insomma. Considerando che la popolazione carceraria toccava, detenuto più, detenuto meno, circa 68mila unità, questo si è fatto il possibile per ora” diventa ridicolo. Non finisce comunque qui. Il giorno di ferragosto l’agenzia Ansa riferiva quanto detto dal ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, nel corso dei tradizionali collegamenti con le sale operative: «Nelle carceri italiane ci sono ad oggi 65.758 detenuti, 706 in meno rispetto al Ferragosto dell’anno scorso, quando erano 66.464». Cifre ufficiali, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Qualcuno evidentemente da i numeri. Il ministro della Giustizia si gloria di un calo di cinquemila detenuti; la collega degli Interni fa sapere che il fatto «possibile, per ora», si è tradotto in 706 detenuti in meno rispetto all’anno scorso.
Trascorre ancora qualche giorno e Leo Beneduce, segretario dell’Osapp, uno dei sindacati della polizia penitenziaria diffonde un comunicato, debitamente ignorato, dove si fa presente che i detenuti hanno nuovamente superato la quota 66mila per 45.572 posti-letto. Accade poi che l’altro giorno Viviene Reading, vice presidente della commissione europea con delega alla giustizia, rilascia all’Avvenire un’intervista, nel corso della quale dice che «un sistema giudiziario efficiente è necessario per garantire i diritti individuali, ma anche il mercato economico: accresce la fiducia dei cittadini e degli investitori. Senza dimenticare la dimensione europea. Un’impresa spagnola può decidere di competere nel mercato italiano o un signore francese di acquistare una casa ad Amalfi. Ed entrambi debbono poter nutrire fiducia nell’efficienza del sistema italiano. Nel programma di crescita verso l’Europa 2020, l’Unione europea ha indirizzato all’Italia una serie di raccomandazioni: riformare la giustizia è fra le più importanti».
Il giorno dopo è la volta del ministro Severino, intervistata da La Stampa. Le chiedono di commentare quanto detto dalla Reading, e lei: «Abbiamo già cominciato a ragionare con le categorie interessate, intendo i magistrati e gli avvocati, sulle possibili soluzioni». È l’amnistia come chiedono Marco Pannella e i radicali? No, perché non ci sono le condizioni politiche; lasciamo perdere il fatto che le condizioni non ci saranno mai se non si lavora perché ci siano. Vediamo, piuttosto, il frutto del ragionamento ministeriale: «L’idea è creare una task force da dedicare ai fascicoli pendenti da più tempo. Un’ipotesi è formare dei gruppi di lavoro formati da un magistrato e due avvocati. Abbiamo fatto delle simulazioni: se applicassimo 200 persone a smaltire le cause in appello che sono in attesa da oltre tre anni, calcolando 40mila sentenze l’anno, impiegheremmo cinque anni per azzerare l’arretrato complessivo. Con lo stesso metodo, impiegando 30 unità al lavoro in Cassazione, occorrerebbero dieci anni. E’ chiaro che se aumentiamo le persone disponibili, diminuiscono i tempi...». «Idea», «ipotesi», «un magistrato e due avvocati»... Per arrivare a duecento occorre trovare a settantina di magistrati e centoquaranta avvocati: scelti chissà in base a quale criterio, e comunque in cinque anni è fatta.
Sì, decisamente ci stanno prendendo in giro.
di Valter Vecellio