mercoledì 15 agosto 2012
Decidere e decidersi, muoversi. Trasformare le idee (quando ci sono) in azioni. Al giorno d’oggi paiono sfide insormontabili. Sì, perché siamo sprofondati fino al collo nelle sabbie mobili della staticità e del lassismo. In che senso? Ve lo spiego subito. Nessuno s’arrischia a prendere una decisione che sia una, a cominciare dal governo del paese – che i politici hanno affidato, non a caso, ai tecnici – per arrivare ai partiti, all’interno dei quali regna un regime d’apatia e di servilismo che, definire preoccupante, sarebbe davvero eufemistico. Una crisi, quella della politica italiana, nera come la pece e, per certi versi, ancor più grave di quella economica per il semplice fatto che, senza punti di riferimento, è utopistico pensare di costruire una prospettiva per il futuro. A comandare, d’altronde, sono sempre gli stessi, almeno da quando il sottoscritto portava i calzoni corti. E la situazione è la medesima in entrambi gli schieramenti anche se, ad onor del vero, a Matteo Renzi va riconosciuto un coraggio che non ha pari, nel centrodestra.
Ora, siccome la lingua batte dove il dente duole, passiamo al Pdl, o a quel che ne rimane. Cominciamo col constatare che sono bastati tre anni, ai due co-affondatori, per auto-rottamare se stessi ed il partito: il primo, Fini, dopo aver distrutto la destra è riuscito a farsi accantonare perfino da Casini ed il secondo, Berlusconi, dopo aver incarnato per anni l’immagine del merito contro i “professionisti della politica”, ha compiuto l’impresa (ardua, non c’è che dire) di depauperare la sua immagine circondandosi di loschi figuri come i Lavitola, i Tarantini, i Mora e infarcendo le istituzioni – per meriti di cui preferiamo non essere a conoscenza – di una “classe dirigente” di cui la Minetti è divenuta l’emblema ma che, certamente, tra le sue fila annovera personaggi ben peggiori ed assai più inquietanti. Insomma, attorno a noi tutto frana e loro dimostrano, per l’ennesima volta, di vivere a distanze siderali dal mondo reale. Sembra quasi che stiano in una sorta di Matrix, in cui i problemi cruciali del Paese sono i matrimoni gay da una parte ed i processi dell’ex premier dall’altra, un tristissimo refrain che si ripete dal 1994.
Beh, dopo tutto questo tempo siamo, ormai, in parecchi ad aver scelto la fatidica “pillola rossa” svegliandoci, così, dalla realtà falsata nella quale eravamo indotti a vivere. Inermi e cloroformizzati, io per primo. Adesso, però, basta. Basta con l’ipocrisia di una generazione che, pur conservando l’ambizione di farsi carico dei valori della destra, non ha il coraggio di alzare la testa e di dire, a voce alta ed una volta per tutte, che l’ostacolo più grande all’affermazione di quegli stessi valori è costituito anzitutto da Berlusconi e, con esso, da una classe dirigente che, per usare un altro eufemismo, il meglio di sé lo ha già dato. Certo, provare a scardinare quel sistema lottando dall’interno era nostro dovere e, in molti casi, lo abbiamo fatto, abbiamo lottato, sì, ma dobbiamo ammettere che quel muro lo abbiamo a malapena scalfito. Il tempo dei tentativi è terminato. Finito. La posta in palio è troppo alta per continuare, immobili, ad osservare nebbie sempre più dense avvolgere l’orizzonte del nostro futuro, il futuro dell’Italia. Il momento storico è troppo importante per lasciarci scivolare tra le dita quel sottilissimo filo ideale a cui è ancora legato il sistema valoriale in cui è scolpito il codice genetico del nostro dna umano e politico, quello stesso insieme di valori in nome del quale, per una vita, abbiamo attaccato manifesti, distribuito volantini e invaso le nostre piazze costruendo, di generazione in generazione, una comunità in nome della identità che ci accomunava. I medesimi principi che, adesso, dobbiamo riaffermare attraverso qualcosa di cui – complici le delusioni di cui ho scritto poc’anzi – ci siamo tristemente disabituati: credere. Nel partito in cui stiamo, nelle sue istanze ed in chi lo rappresenta. Cosa divenuta oggettivamente impossibile rimanendo nel Pdl.
È giunta l’ora di metterci in gioco, rimboccarci le maniche e costruirla noi, una destra forte e libera, in questo paese, senza più sperare che sia qualcun altro, a farlo per noi. Nel suo appello di qualche settimana fa, Marcello Veneziani, parlò di una destra sociale e nazionale, capace di superare berlusconismo e finismo per affermare la parola d’ordine imprescindibile in quella che si delinea come la battaglia campale per la riconquista del nostro benessere: la sovranità. A vele spiegate verso Itaca, quindi. Già, ma qual è la rotta che dobbiamo seguire? Per quanto mi riguarda la risposta è semplice, perché questi valori e, soprattutto, questo spirito, li ho ritrovati in un uomo che da tempi non sospetti lavora per costruire una destra, anzi, La Destra. Il suo nome è Francesco Storace, il sogno comune si chiama La Destra, il nostro dovere è lottare per affermarne i principi e gettare, oggi, il seme della speranza. Per far sì che, in un domani nemmeno troppo lontano, i nostri figli possano raccoglierne i frutti.
*Consigliere comunale a Como, ex dirigente Giovane Italia
di Alessandro Nardone*