mercoledì 1 agosto 2012
La discussione sulla riforma elettorale prosegue imperterrito nel dibattito partitico e giornalistico e nell’indifferenza del paese. Non sono le regole del voto che formano maggioranze o minoranze. Si pensi alla Francia dove al primo turno i primi tre protagonisti, socialisti, gollisti e nazionalisti, avevano fatto registrare una percentuale simile, intorno al 20%. L’impossibilità di mescolare l’europeismo americanizzante gollista con i franchistes ha poi rovesciato il risultato dando una grande vittoria ai socialisti. Inoltre ha dimezzato la presenza comunista oltralpe, già risibile. In qualunque modo si vada a votare ora, il fango caduto sui partiti, che ha lambito anche il Colle, potrebbe indurre al non voto o al voto di protesta che guarda a Grillo.
C’è un quadro da record nel paese in sei mesi senza Berlusconi e con Monti: record spread da brividi a 546, record mondiale per la pressione fiscale, record cassa integrazione 2012, record debito pubblico del primo trimestre, record recessione a meno 2,4. Per dirne una, siamo addirittura arrivati al contrabbando di sigarette che, portate oltre i 5 euro, hanno diminuito il loro gettito fiscale del 9%. Ora è ben noto chi si disgusta per la cosiddetta politica sporca: una parte di una destra dura e pura di dipietristi, fascisti e postfascisti. Dall’altra e la schiera pseudo progressista di Mauro, Scalfari, Vattimo, Flores d’Arcais, Lerner, De Benedetti, Fava e magistrati annessi. A facilitare un voto antipartitico, avrebbe molto più presa l’enorme indignazione contro i sostenitori di Monti, di un elettorato non particolarmente versato in bizantinismi ma sgomento di fronte ad un esecutivo capace di peggiorare sensibilmente ogni aspetto della vita del paese. Ai diversi elettorati non direttamente impegnati nel dibattito politico interessano poco i dibattiti sulle preferenze e sui collegi. Sono tutti sicuri che i candidati comunque saranno scelti dai partiti e poco importa se per partiti s’intenda le segreterie nazionali invece di quelle regionali.
L’elettorato chiede di scegliere almeno i leader e poche idee cardine. E pretende che vengano attuate, ma sa ormai che alcuni organi burocratici istituzionali sia nazionali che europei sono decisi a vietare un lungo elenco di scelte che non rientrano nel progresso e nelle scelte democratiche possibili. In questo contesto si colloca l’assurda pantonima delle primarie, che ultimamente anche il Pdl ha invocato come l’unica soluzione possibile per democratizzare i partiti. Come è noto le primarie sono istituzionalmente adottate negli Usa per scegliere i candidati dei due partiti e delle loro teste di serie in lizza per la Casa Bianca. I partiti sono due, non hanno sezioni né fondazioni. Con le primarie raccolgono registrandoli gli elettori che dichiarano di votare per loro. Nel caso italiano, partecipano le sezioni, gli iscritti ai partiti. Magari dopo un congresso. Su questa enorme infrastruttura, le primarie hanno un senso solo per la sinistra e per la sua strana storia. Le primarie a sinistra servono a rimettere insieme tutto lo spettro di quello che fu il Pci ed il suo mondo fiancheggiatore professional-indipendente. Lo stesso elettorato di sinistra, ormai completamente senza punti di riferimento, vota nelle primarie sistematicamente esponenti massimalisti di questo ampio arco, senza avere però il coraggio di voltare le spalle al Pd, alla raccolta dei postcomunisti moderati, ormai consolidati nel paese e nel suo estabilishment economico, finanziario, istituzionale di governo.
Questa è la pantomina delle primarie, non voluta dai capi della sinistra, quanto dai suoi corpi intermedi che, sordi e ciechi di fronte all’evolversi delle società occidentali, vogliono vivere e comandare in un contesto ricco e avanzato, ma non vogliono abbandonare una serie di idee strampalate: terze vie, energie pulite, imprese senza profitti, mundialismi nel rispetto dell’origine controllata. Se l’elettorato di sinistra fosse coerente non voterebbe Vendola, Pisapia, De Magistris, Orlando. Oppure darebbe al massimalismo statalista e giustizialista il predominio finale. Con istinto animale questo elettorato intuisce, secondo la lezione orientale di quello che fu il Pci, che una scelta chiara lo destinerebbe, come avvenuto in Spagna, Francia e Germania all’estinzione. Sono i suoi quadri intermedi, collocati nelle regioni centrali ed in alcune grandi realtà urbane, (e a largha maggioranza nei media), che pur sbandierando costumi avanzati, spiriti liberali ed entusiasmo per la competizione tecnologica, in realtà si battono per tenere insieme medioevo e futuro. L’ultimo volume edito da Fabrizio CicchittoLinea rossa affronta proprio questo punto: la storia dei comunisti italiani, partiti dal Pci, trapassati in Pds, Ds e ora Pd. La storia dell’anomalia italiana del “Fattore k” di roncheiana memoria e di altre anomalie. Cicchitto, sull’onda di una presunta richiesta della base, ha invocato anch’egli le primarie per il Pdl. Eppure non se ne comprende l’utilità nel centrodestra, dove i conti sono facilissimi: i cattolici di Cl vincerebbero a mani basse in Lombardia. I postfascisti nel Lazio e nel Sud. Vari raggruppamenti laici, liberali e liberisti raccoglierebbero pochi punti. Forse una qualche rappresentanza più significativa potrebbero ottenerla unendosi agli ex socialisti, berlusconiani che, come Cicchitto, si sono trovati al vertice di un mondo composito di conservatori, cattolici, liberali, libertari, fascisti, populisti ed hanno cercato di essere l’interprete di tutti e dell’amalgama del centrodestra italiano. Il recente e particolare astio dimostrato da molti raggruppamenti laici verso questo top ex socialista preclude quest’unione.
Da parte sua la punta di lancia dei Cicchitto, Brunetta e Tremonti, peraltro nemmeno d’accordo fra loro, ha tanto interiorizzato il fatto d’essere stata scelta dal leader indiscusso, che ha perso completamente il senso di componente, proprio per privilegiare un tutto. Un tutto che sia ben chiaro è nei suoi grandi numeri l’erede del partito cattolico conservatore. Nella Linea Rossa, cronaca storicizzata e la storia cronicistica della partitica italiana, un personaggio completamente particolare come il presidente dei deputati del Pdl (né leader, né storico, né voce craxiana, né capo componente socialista o di un qualche sparuto gruppo ex Psi senza pretesa di essere nulla di tutti questi ruoli), descrive bene l’innaturalezza della sinistra comunista, piccolo sodalizio collaborazionista in un altro paese, proiettato dalla guerra fredda al centro della scena, con forza politica e finanziaria indotta, divenuto un grande partito burocratico chiuso in sé convinto razzialmente di una propria superiorità, fino al punto di convincerne anche i pezzi istituzionali per loro natura più repressivi e autoritari. Col tempo e nella frequentazione di destra, Cicchitto ha interiorizzato alcune novità: il proseguimento della guerra civile dopo la guerra, il sabotaggio della repubblica inserito in Costituzione ed il gioco dei servizi segreti stranieri nei tanti dibattiti di sinistra. Alcune cose sono dure a morire. Resta l’esaltazione per una figura topos come Gramsci, quando ci sarebbero ottime ragioni per chiudere l’omonimo istituto. Se gli stessi liberali si sprecano a parlarne, ignorando Mosca e Pareto, che dire? Resta il silenzio sui disastrosi comportamenti ondivaghi dei socialisti e dei progressisti nell’esilio. Manca l’ammissione che l’intera classe dirigente sbarcata a Salerno o portata dai vincitori a conflitto finito non solo erano dei signor nessuno ma avevano un curriculum del tutto negativo.
Non a caso ci vollero 40 anni per sentire un dibattito liberalsicialdemiocratico che l’Italia aveva già conosciuto negli anni ’10. Ecco perché alla presentazione del volume, D’Alema, simbolicamemte e materialmente imputato dal volume, ha potuto rintuzzare facilmente. Il Pci, risponde Baffino, non fu un complotto ma ottenne un grande consenso. Il riformismo socialista morì ben prima della nascita del Pci. Tanta parte del sindacalismo socialista diventò fascista e corporativo. Solo sulla non volontà comunista di ingabbiare gli avversari politici, Baffino scivola per l’evidente gaffe, proprio mentre il magistrato Colombo, di Mani Pulite vicino alle posizioni comuniste più estreme, è uno degli uomini Rai indicati dal Pd. Cicchitto (con Quaragliello e Pons) dovrebbero consequenzialmente rifiutare l’antifascismo di maniera, tutt’oggi caposaldo della sinistra delle primarie. Dovebbero contendere quel nazionalismo e senso dello stato di cui si impossessò il Pci. Accostare l’anomalia di un capitalismo abituato ai mercati captive all’anomalia di un elettorato che si è abituato a vivere all’occidentale tifando come fa nelle primarie per africani e freaks, Al prossimo libro l’evoluzione ulteriore, con la sicurezza che l’anomala sinistra italiana sarà rapida a cogliere ogni addentellato contraddittorio per sopravvivere; e con il timore che piccinerie di poco peso mantengano i contrasti tra laici e realisti.
di Giuseppe Mele