martedì 24 luglio 2012
La transizione dalla Prima alla Seconda repubblica in Italia avviene nel 1993, con le riforme elettorali, insieme all'impatto dell'inchieste di Mani pulite sul sistema partitico e sulla vecchia classe dirigente: ne scaturiscono il collasso di un assetto politico che aveva retto per oltre un quarantennio e l'avvio della Seconda repubblica. Nel frattempo, prima dell'avvento di Monti, si è affermato un "bipolarismo imperfetto", caratterizzato da una particolare eterogeneità interna delle diverse coalizioni partitiche, tali da delineare una continua instabilità governativa.
I governi sono diventati più longevi, ma ondeggiano tra la riemersione di faide interne e la tentazione di togliere all'opposizione anche le prerogative necessarie per svolgere efficacemente il suo ruolo di controllo. Alcuni, come Calise, hanno affermato addirittura l'instaurazione di una Terza repubblica, ovvero un di regime caratterizzato da assaggi di presidenzialismo e rigurgiti di partitocrazia, poteri esecutivi forti, con elezione diretta dei capi, come il premier, il governatore, oppure il segretario generale di un partito stesso, che però devono vedersela con il ritorno della nomenclatura, di segreterie e di apparati. Più saggiamente, Grilli di Cortona è di tutt'altro avviso, chiedendosi: come è possibile che si sia già arrivati alla Terza repubblica, se ancora non siamo in grado di costruire compiutamente la Seconda?
Della stessa opinione è Panebianco, il quale sostiene che per stabilizzare i nuovi equilibri, createsi dopo il collasso della Prima repubblica, e chiudere la transizione sia necessario un adattamento del disegno costituzionale, che possa ricalcare il modello del "governo del Primo ministro", con il contrappeso di uno "statuto dell'opposizione" e che sancisca la fine del bicameralismo perfetto con la creazione di un vero "Senato delle Regioni".
Alla luce di questo, l'evoluzione del panorama partitico della Seconda repubblica lascia molto a desiderare, per tutta una serie di ragioni, sintetizzabili grossolanamente in due eventi significativi: il primo, la mancata costruzione nel centrodestra di un soggetto politico, capace di raccogliere il consenso unanime dei moderati, all'insegna di una "rivoluzione liberale", tanto acclamata, ma intimamente giammai perseguita. Il secondo, l'incapacità del centrosinistra di collocarsi in maniera unitaria, sotto il profilo programmatico, nella famiglia dei socialisti europei. I partiti diventano, in un certo senso, i protagonisti "in negativo" della Seconda repubblica, secondo alcuni.
Emerge la volontà da più parti, di affossare il sistema partitico, cercando di "liquidarlo", tanto per usare una terminologia cara a Bauman. È intenzione di molti "azzerare" le differenze partitiche, in nome di una modernità politica composta da comuni ed esclusive politiche economiche, nonché politiche estere, in ambedue gli schieramenti partitici del nostro paese: un atteggiamento che sostanzialmente pretende di scavalcare la logica parlamentare, per affidarsi esclusivamente all'impatto diretto dell'azione esecutiva. La personalizzazione della politica e l'aumento esponenziale del numero dei decreti emanati dall'istituto governativo, negli ultimi quindici anni, sono episodi sintomatici di siffatto fenomeno. Con la volontà di svuotare i partiti dei loro contenuti originali, rendendoli una specie di contenitori vuoti, tipici del catch-all party, esiste, parimenti, un fine di annichilire la diversità, per questo la ricchezza culturale italiana in ambito politico.
Distruggere la partitocrazia, ironizzare sui "dinosauri" della Prima repubblica, affermare la morte di ogni ideologia, dei cosiddetti meta racconti: sembrano essere le parole d'ordine in questo momento. Alfassio Grimaldi, ex fascista, dopo di che, partigiano nella divisione Masia nel 1943, scrive con toni enfatici, tipici del momento storico, sulla rivista Mondoperaio nel 1974: «La deideologizzazione è l'ideologia della conservazione neocapitalista". È giusto chiedersi: tutto questo è un bene? Le differenze tra la Prima e la Seconda repubblica in tale contesto sono notevoli.
I partiti in Italia hanno permesso, pur con le loro numerose deficienze, il consolidamento della democrazia, così come l'instaurazione dell'istituto repubblicano e della nostra carta costituzionale: tre traguardi irrinunciabili per il cammino civile, storico e contemporaneo dell'Italia. La Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista, nonché il Movimento Sociale, seppur quest'ultimo con le sue specificità, formavano i propri quadri dirigenti, attraverso le scuole di partito e il "tutoraggio" degli esponenti più esperti del partito stesso. Le persone che uscivano dall'esperienza partitica della Prima repubblica erano dialetticamente e culturalmente preparate.
Attualmente il nostro Parlamento offre scenari politici davvero poco interessanti, sia sotto il profilo della diatriba, che dell'effettiva offerta politica. Fisichella nota, forse nostalgicamente, di certo con malcelato pragmatismo, come il numero dei laureati, tra le file dei deputati della Camera e dei senatori, fosse più elevato nella Prima repubblica, piuttosto che ora. È legittimo un parallelismo con le figure politiche che hanno ruotato intorno all'ex Primo ministro italiano, alla sua creatura politica, e con i tanti personaggi insidiatesi a livello locale, prima ancora che nazionale, tra le sue file.
In un momento di crisi economica come questa, è giusto chiedersi se un ritorno alla politica sia un bene, oppure perpetuare con lo stato di ancillarità della politica nei confronti dei vari agenti economici particolari. Poteri d'acquisto depauperati, perdita generale della ricchezza, mancata ripresa dell'economia, sconforto tra i lavoratori e paura tra gli investitori, disoccupazione e povertà crescenti: le problematiche sono note. Chi scrive, crede che un ritorno alla politica sia altamente auspicabile.
È d'uopo riflettere su di un ritorno alla politica per l'uomo, inteso come animale sociale. Parafrasando la massima di Rousseau, per cui «l'uomo nasce libero, e ovunque è in catene», l'attuale crisi economica può trovare nella politica la sua unica ed esclusiva chiave, per aprire, ovvero liberare, l'uomo dalle catene, del particolare stato di indigenza e sconforto nel quale esso viene a trovarsi. Il ruolo del politico è di importanza imprescindibile: la sua formazione, la sua cultura, le sue passioni, le sue esperienze e le proprie letture sono essenziali. Il suo operato è funzionale alla realtà in cui esso si trova, che possa essere: locale, regionale, nazionale, oppure comunitaria ed internazionale.
Per questo ripensare i partiti, ovvero l'ambito primo di chi fa politica, così autentico di quella stagione essenzialmente felice per il nostro paese, è opera buona e giusta. Azzerare i partiti non è la risposta esatta alla crisi.
di Gabriele Federici