Storie di una giustizia da due soldi

venerdì 6 luglio 2012


La vicenda potrebbe tranquillamente far parte degli episodi raccontati nel vecchio ma sempre godibile Un giorno in pretura, il film di Steno con Sofia Loren, Alberto Sordi, e tanti altri protagonisti di quel cinema di cui s’è persa memoria. Siamo a Trento.

Un giovane marocchino entra in un supermercato. Nel carrello pane, latte, uova, frutta. Quella confezione di formaggio da un paio di euro no. Quella svelto la nasconde nella tasca interna della giacca. Pensa di passare inosservato, ma qualcuno invece l’ha visto e l’aspetta al varco. Giunto alla cassa, il giovane marocchino paga, fa per uscire, viene gentilmente fermato: il formaggio, gli dicono, quello nascosto nella giacca… Il ragazzo non prova neppure a imbastire una scusa, l’hanno preso con le dita nella marmellata, tanto vale far buon viso a cattivo gioco: consegna il formaggio, si offre di pagarlo. No, ormai sono stati chiamati gli agenti di polizia, bisogna stendere un verbale, parte la denuncia.

Trascorrono otto mesi. Si può immaginare cosa sia nel frattempo accaduto: al commissariato avranno formalizzato la denuncia, e il rapporto sarà stato recapitato alla procura della repubblica, tutto l’iter burocratico che la legge prescrive. La settimana prossima il processo. C’è da augurarsi che tutta la storia finisca alla prima udienza. Anche fosse, in tempo e denaro, risorse umane sottratte ad altre più importanti e impellenti vicende, quanto è costata questa “operazione” nata dal furto tentato di una confezione di formaggio da un paio d’euro? I poliziotti che accorrono sul posto, il tempo per il verbale, il tempo per il rapporto. E poi in procura… Si dirà che la “legge è legge”, e che va applicata, sia quando appare “dura”, sia quando appare paradossale come in questo caso.

Però ci sono episodi come questo del formaggio che qualche riflessione amara pur involontariamente, la accendono. Come la storia di quel ragazzo di Taranto, accusato da un negoziante di avergli sottratto un ovetto di cioccolata, cercando di nasconderlo nell’interno dei jeans. Quel negoziante chiamò i carabinieri, che ascoltarono le versioni dell’accusatore e dell’accusato (quest’ultimo sosteneva sì di aver preso l’ovetto e di esserselo messo in tasca, ma contemporaneamente di aver estratto il portafogli per pagarlo). I carabinieri stesero un verbale, il verbale divenne un rapporto, il rapporto un procedimento giudiziario. Alla fine il ragazzo è stato assolto perché – lo avevano fatto presente anche i carabinieri nel loro rapporto – i jeans indossati erano così attillati da rendere fisicamente impossibile il tentativo di nascondere alcunché. Verdetto emesso secondo logica, ma dopo che erano trascorsi ben due anni e otto mesi!

La paralisi in cui versano i nostri uffici giudiziari è nota. Ed è noto che per questa paralisi, ogni anno circa duecentomila processi anche gravi diventano carta straccia, in virtù di quella prescrizione che Marco Pannella chiama “clandestina (perché la si ignora), di massa e di classe” (perché ne beneficia quasi sempre chi ha un buon avvocato capace di fare slalom tra i meandri dei codici e delle leggi). La domanda, spontanea e inevitabile: quanto costano al contribuente e allo Stato processi come quello per presunto furto d’ovetto di formaggio? E quanti sono i procedimenti simili a questi che intasano tribunali e aule di giustizia?


di Valter Vecellio