venerdì 6 luglio 2012
Spending review a rischio Titanic. Proprio come il gioiello della marina mercantile britannica di inizio ‘900, anche il piano di revisione della spesa pubblica italiana rischia di affondare già al viaggio inaugurale. E i suoi iceberg, ancora più infidi e pericolosi di quelli che scorrazzano imprevedibili nel nord Atlantico, sono gli stipendifici di stato.
Anzi, sta andando ancora peggio: almeno “l’Inaffondabile” era arrivato fin quasi in vista delle coste del nuovo mondo, prima che la navigazione si trasformasse in tragedia. La spending review, invece, ha cominciato a perdere pezzi prima ancora di partire. Ieri pomeriggio, alle 17, Monti e i suoi ministri si sono seduti intorno ad un tavolo per discutere i contenuti della manovra salva-spese. Già in mattinata, però, la proposta di chiudere gli ospedali con meno di 80 posti letto era stata stralciata, per non incorrere nell’ira funesta delle regioni. Ancora prima, si era deciso di far slittare in fondo all’elenco l’idea di accorpare le province e creare dove possibile le cosiddette città metropolitane. Guardacaso, a mettersi di traverso, stavolta erano stati proprio i presidenti dei capoluoghi di provincia.
Ma non finisce qui, purtroppo. Se il premier aveva promesso che i tagli non sarebbero stati fatti con la mannaia, c’è da dire che qualunque sia lo strumento da taglio che intende usare, ha la lama già arrugginita e senza filo. Di ora in ora sembra concretizzarsi sempre più quella che era stata la più grande paura degli osservatori di questa manovra: ovvero che lo slancio alleggeritore del governo avrebbe finito presto o tardi per infrangersi con l’ostruzionismo di chi intende difendere strenuamente i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. E sta accadendo anche molto più in fretta del previsto. Dopo il niet al taglio dei mini-ospedali, figli di una mentalità che confonde la falsa comodità della prossimità con le esigenze di efficienza e specializzazione, presto potrebbe toccare ai mini-tribunali. Ce ne sarebbero 33 che secondo l’esecutivo potrebbero chiudere i battenti nel nome della razionalizzazione. Ma le toghe sono già sul piede di guerra, e hanno già fatto presente di essere pronte a scatenare una guerra ad oltranza.
Sul fronte giustizia, spunta anche l’ipotesi di centralizzazione dei bandi di gara per l’assegnazione degli appalti sulle intercettazioni telefoniche. Non si tratta di una razionalizzazione tout-court, ma di rimediare al più presto ad un’aperta violazione delle norme europee, consolidatasi come un’abitudine tra le procure italiane. La Commissione europea ha recentemente disposto l’apertura di una procedura di infrazione contro il nostro paese, reo, secondo le accuse di Bruxelles, di violare le disposizioni continentali nell’assegnazione dei contratti. In sostanza, la Commissione accusa le procure italiane di affidare le intercettazioni telefoniche e ambientali senza le gare d’appalto previste dalla legge, ma tramite invece assegnazione diretta, a completa discrezione della singola procura. Se la Corte di giustizia dell’Unione europea dovesse effettivamente rilevare la violazione delle disposizioni Ue, l’Italia verrebbe condannata ad una sanzione che, nel migliore dei casi, sfiorerebbe i 10 milioni di euro, così come fissato dal tabellario della Comunicazione Sec 1658/2005, e con interessi di mora variabili tra i 22mila e addirittura i 700mila euro per ogni eventuale giorno di ritardo nel pagamento.
A rischio flop anche il lavoro del primo della classe: il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, aveva già fatto i compiti a casa molto prima che il resto dei suoi colleghi cominciasse a riempirsi la bocca con la spending review, ma anche lui adesso deve fare i conti con l’opposizione interna al suo dicastero. Il suo piano di riforma delle spese era pronto già da febbraio: taglio di 33mila militari e 10mila civili entro il 2024, con un -30% tra le file degli alti ufficiali; progressiva dismissione di edifici inutilizzati, ma anche elicotteri, mezzi navali e blindati obsoleti; infine il ridimensionamento del tanto vituperato progetto F-35: il piano originale prevedeva l’acquisto di 131 caccia, ma le forze armate ne comprerà soltanto 90, con un risparmio di circa 5 miliardi di euro. La filosofia dei “pochi ma buoni”, ovvero meno soldati ma meglio addestrati ed equipaggiati, sembra però non piacere a buona parte dei vertici in stellette. I quali, con la scusa di voler difendere «la fondamentale componente umana», proteggono in realtà un sistema che non si regge più in piedi: mancano soldati semplici e sovrabbondano invece ufficiali e sottufficiali, con un costo ben superiore a quello che si dovrebbe affrontare con un organico più numeroso ma meglio distribuito tra i ruoli. Nel gennaio dello scorso anno, Analisi Difesa disegnava un quadro a dir poco desolante. Le esigenze operative delle nostre forze armate richiederebbero indicativamente 22.250 ufficiali, 25.400 marescialli, poco meno di 40mila sergenti e circa 103.800 volontari di truppa, per un totale di circa 190mila effettivi. La realtà dei numeri parla invece di 178.571 militari, di cui 23.340 ufficiali, quasi 60mila marescialli, vale a dire ben oltre il doppio del necessario, a fronte di appena 15.100 sergenti, ovvero meno della metà del modello di quanto richiesto, e circa 80.860 uomini circa per i volontari di truppa: oltre 20mila soldati semplici in meno.
Il vero scontro, però, sarà quello con i sindacati. E non certo sul braccio di ferro attorno al taglio degli statali. No, il governo intende compire nel vivo la trimurti Cgil Cisl e Uil attaccando i Caf e riducendo il contributo statale per ogni dichiarazione dei redditi che transita attraverso i centri di assistenza fiscale delle parti sociali: un euro in meno per ogni dichiarazione semplice (da 14 a 13 euro l’una), meno due per quelle congiunte (da 26 a 24 euro). Parrebbe un taglio irrisorio, ma non è così: solo nel 2011, infatti, nei Caf distribuiti su tutto il territorio italiano sono passate qualcosa come 17 milioni di dichiarazioni dei redditi. A questa sforbiciata si deve aggiungere poi il progetto di ridurre del 10% i trasferimenti statali ai patronati. Davvero troppo per illudersi che il triumvirato Angeletti-Bonanni-Camusso non faccia di tutto per imporre l’ennesima retromarcia al professore in loden.
di Luca Pautasso