giovedì 5 luglio 2012
Probabilmente la sede centrale rimarrà quella storica di corso Giovanni Agnelli, i nuovi modelli continueranno ad uscire dal Centro Ricerche di Orbassano, e gli ingegneri saranno ancora reclutati al Politecnico. Una cosa è certa, però: da qui ai prossimi anni la Fiat sarà sempre meno italiana.
Non potrebbe essere altrimenti. E non per colpa della crisi, o del mercato che stagna. È solo che in Italia fare l’imprenditore è impossibile. Non si può averla vinta contro una burocrazia barocca e onnipresente. Non si può sopravvivere ad una pressione fiscale reale che si porta via anche il 50% degli introiti. Non si possono attrarre investimenti dall’estero, progettare un piano industriale, promuovere il merito assumendo i più capaci, allontanando gli scansafatiche e i sabotatori e premiando invece chi lavora di più e meglio. Perché, a dispetto dei contratti che si possono sottoscrivere, dei lacci e lacciuoli cui si può sottostare, delle norme e dei commi davanti ai quali ci ci può piegare ostinandosi a fare impresa in uno stato che l’impresa non la vuole, può sempre capitare da un giorno all’altro che un tribunale decida chi, come, e quando l’imprenditore debba far lavorare, sulla base di sentenze che definire fantasiose sarebbe un eufemismo. E per questo c’è chi le ha giustamente definite flokloristiche.
Lo si è visto a Melfi, dove la Fiat è stata costretta a reintegrare tre dipendenti che durante uno sciopero avevano deliberatamente ostacolato la produzione. Lo si è rivisto a Pomigliano, dove altri 145 operai dovranno essere reintegrati sulla base di una presunta discriminazione sindacale calcolata col pallottoliere da un semisconosciuto professore spuntato da chissà dove. Due episodi che da soli basterebbero come alibi per far fagotto e non tornare mai più, a dispetto dei miliardi di aiuti munti allo stato italiano per decenni. Se non fosse che, per giunta, qui bisogna fare i conti anche con le tasse alle stelle, la burocrazia onnipresente, infrastrutture indegne di un paese industrializzato e la giustizia civile più inefficiente d’Europa (lo dice uno studio della Banca Mondiale).
E allora, che si fa? Si delocalizza. E non soltanto perché il costo del lavoro è inferiore, giacché gli Usa non sono l’India, la Polonia o la Cina, eppure le fabbriche lavorano benissimo lo stesso. Ma perché in Italia non si può più lavorare, perché l’Italia il lavoro non lo ama, e persino i sindacati preferiscono difendere i privilegi anziché l’impiego. Non è un caso che la nuova 500L, la nuova “piccola” di casa Fiat sulla quale il marchio sta scommettendo parecchio, sia un progetto che nasce serbo (nello stabilimento di Kragujevac) e vuole crescere Oltreoceano. Per dirla alla Marchionne, «in Italia c’è già uno stabilimento di troppo». E presto saranno molti di più.
di Luca Pautasso