Salva-spread, opportunità rischiosa

mercoledì 4 luglio 2012


European Redemption Fund, o Erf. Acronimo illustre per un fondo di salvataggio a beneficio dei paesi dell’euro in crisi, così come proposto in un paper dei cinque saggi tedeschi, che compongono il Consiglio economico, massimo organo tecnico di consulenza finanziaria del Governo Merkel. In un modo, o nell’altro, nella visione germanica, l’Europa è pur sempre un soggetto collettivo da redimere. Fino al Consiglio di Bruxelles del 28 giugno scorso, nel Vecchio continente ha prevalso la visione “purista” di Berlino, che pretende prima il risanamento interno delle finanze pubbliche dei paesi dell’euro meno virtuosi (in fondo: di chi è la colpa dell’enorme mole di debito pubblico di paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia, se non la loro?) e, “poi”, il sostegno delle istituzioni bancarie e finanziarie europee per favorirne la rinascita economica.

In via teorica, il funzionamento dell’Erf è il seguente. In primo luogo, per tutti gli stati più indebitati dell’eurozona, la parte di debito pubblico eccedente il 60% del Pil nazionale confluirebbe - nell’arco di un triennio - in un apposito Fondo. Secondariamente, l’Erf verrebbe garantito, per il 20% della sua dotazione, dagli stati membri aderenti attraverso i loro asset pubblici (riserve auree comprese) e da almeno una percentuale di tasse riscosse a livello nazionale. Il Fondo, poi, emetterebbe bond europei rimborsabili in 20, massimo 25 anni, in modo da concedere un sufficiente periodo di tempo agli stati aderenti, per assestare “obbligatoriamente” il proprio rapporto debito/Pil al 60%, vincolandosi - con modifiche costituzionali, se necessario - a non superare lo 0,5 del Pil per quanto riguarda il debito strutturale. L’esistenza dell’Erf, pertanto, è temporaneamente limitata (la sua dotazione complessiva dovrebbe aggirarsi intorno ai 2.300 miliardi di euro) e il Fondo deve essere completamente rimborsato dagli stati membri alla fine della sua durata. Da questa soluzione (che non implicherebbe la riformulazione dei trattati esistenti o la scrittura di nuovi, ma che può essere concretizzata mediante semplici intese) paesi come l’Italia pagherebbero complessivamente interessi sul debito relativamente bassi, mentre quelli come la Germania dovrebbero sopportare costi maggiori, rispetto agli attuali, per finanziare il relativo debito pubblico nazionale.

Dov’è la “fregatura”? Nella tabella degli ammortamenti: l’Italia conferirebbe all’Erf 1000 miliardi di € di debito pubblico (pari, attualmente, al 62% del Pil), ma si troverebbe obbligata a pagare, dal 2013 fino al 2032, qualcosa come 100 miliardi di euro all’anno (pari al 6% del Pil previsto per il 2013), tra interessi al 4% e rimborso al 3,15% delle quote di capitale. Insomma, di che rovinarsi per più generazioni. Ci sarebbe un altro modo per salvare l’euro? Forse sì. Ad esempio, potrebbe essere “solo” la Germania a uscire dalla moneta unica e riprendersi il marco, lasciando che gli altri 16 restino una zona euro “modificata”. Ovviamente, la reintroduzione del marco avrebbe un effetto immediatamente svalutativo sull’euro, rispetto al dollaro, permettendo così alle economie più in difficoltà (Spagna, Italia, Grecia, Irlanda e Portogallo) una maggiore flessibilità finanziaria, necessaria a stabilizzare le loro rispettive economie. Certamente, fatto salvo il rischio di svalutazioni a catena - sempre da evitare se si vuole garantire una  crescita stabile - è pur sempre vero che anche economie più solide, come quella francese e olandese, potrebbero trarre vantaggio a rimanere nell’area di un euro meno forte, per rilanciare la loro competitività sui mercati internazionali.

Per altri paesi, come Italia, Spagna e Grecia, la ripresa delle esportazioni e dei consumi interni porterebbe a un, più o meno, sensibile recupero della disoccupazione interna, anche se non servirebbe a molto, per alleggerirne il fardello del debito pubblico. D’altra parte, però, è solo con la crescita del Pil che si possono trovare le risorse aggiuntive per ristrutturare l’economia, riformando il mercato del lavoro nazionale e aumentando le entrate fiscali, in modo da rendere più remunerativi gli investimenti esteri. Insomma, perché non rimettere la “creatività” al centro dei nostri percorsi politici futuri?


di Maurizio Bonanni