martedì 3 luglio 2012
Raffreddati gli entusiasmi – quello più giustificato per la vittoria calcistica di giovedì scorso della nostra Nazionale contro la Germania, e quello per lo meno esagerato, se non fuori luogo, per la vittoria politica di Monti sulla cancelliera Merkel – è forse possibile ragionare serenamente sui risultati concreti del Consiglio europeo dello scorso fine settimana e sull’ennesimo bluff del nostro premier.
Il successo di Monti sul piano negoziale è indubbio. L’Italia ha addirittura posto il veto all’approvazione degli altri capitoli del vertice, tra cui il pacchetto crescita da 120 miliardi di euro e la “road map” per l’unione economica, pur di far passare contestualmente il paragrafo sul cosiddetto scudo anti-spread, riuscendo a far convergere Spagna e Francia sulla sua posizione. Nel merito, tuttavia, com’è ovvio in un consesso diplomatico in cui nessuno degli attori poteva realmente permettersi di tirare la corda fino alla rottura, si tratta di un pareggio, di un compromesso, tra Italia, Spagna e Francia da una parte e Germania dall’altra.
Gli attuali fondi salva-Stati (EFSF ed ESM) potranno intervenire sul mercato primario e secondario per acquistare i bond dei paesi in difficoltà ma “virtuosi”, quelli cioè che nonostante abbiano rispettato gli obiettivi di bilancio concordati in sede Ue sono costretti dai mercati a pagare rendimenti insostenibili. In pratica, stiamo parlando di Italia e Spagna. A questi paesi si risparmia l’umiliazione politica di essere controllati dalla cosiddetta “troika”, ma gli acquisti da parte dell’ESM sono comunque condizionati alla firma di un memorandum d’intesa. In effetti, questa era una possibilità già prevista nel trattato ESM, dunque per ora non si prevede niente di diverso, almeno non esplicitamente, rispetto a quanto già previsto, se non forse nell’impegno, contenuto nell’ultimo paragrafo della dichiarazione finale, a utilizzare questi strumenti “in modo flessibile ed efficiente”. Il meccanismo può essere attivato all’unanimità dei soci dell’ESM, oppure, nel caso di una procedura d’emergenza richiesta dalla Commissione Ue e dalla Bce, con una maggioranza qualificata dell’85% delle quote di partecipazione.
Le modalità operative, i dettagli di funzionamento, che chiariranno in che cosa il nuovo scudo anti-spread differisce dal meccanismo già previsto, saranno stabiliti dall’Eurogruppo il 9 luglio, ma ciò che emerge fin da ora è che sarà tutt’altro che automatico, anche se forse un po’ meno oneroso per il paese richiedente. C’è, poi, la questione della sua dotazione finanziaria, attualmente stimata in circa 500 miliardi. Non si parla né di un aumento, né della possibilità da parte del fondo di indebitarsi presso la Bce, il che significherebbe dotarlo dello status di “banca” e permettere acquisti praticamente illimitati perché “coperti” dalla Bce. Ecco, dunque, ritornare il nodo del ruolo della Bce. Un ESM non sostenuto dalla Bce, e con un budget limitato, presterebbe il fianco alla volontà dei mercati di testarne volontà effettiva e potenza di fuoco, rendendo addirittura più rischioso per l’Italia chiederne l’intervento che non avvalersene.
Ma soprattutto, ora che Monti ha avuto la sua “tachipirina”, recuperando agibilità politica interna, sarà in grado finalmente di somministrare l’antibiotico all’Italia? L’antibiotico, come più volte richiamato su queste pagine, consiste in un cospicuo ed immediato abbattimento dello stock del debito, unito ad un piano pluriennale di tagli della spesa pubblica e delle tasse di diversi punti di Pil per far ripartire l’economia, in modo da impegnare in questo percorso anche i futuri governi. Dall’agosto scorso fino ad oggi, dopo la prima insufficiente dose di antibiotico, la riforma delle pensioni, il nostro governo in Italia così come i 17 in Europa hanno provveduto solo a guadagnare tempo con le “tachipirine”.
Se, una volta ottenuta l’ennesima “tachipirina”, i governi dei paesi in difficoltà, Spagna e Italia, dovessero adagiarsi, i mercati e i partner europei avrebbero la prova che l’accondiscenza non funziona meglio dello spread nel mantenere elevato il livello di guardia, la determinazione nel proseguire con il rigore e le riforme. Purtroppo, come evidenziato da Zingales sul Sole 24 Ore, il fatto che Monti abbia spinto per ottenere uno scudo anti-spread potrebbe significare che il premier «si basa sul presupposto che il costo del nostro debito non abbia alcuna base reale, ma sia solo il frutto della speculazione». Un pensiero pericoloso, perché lo indurrebbe ad affidarsi alle “tachipirine” piuttosto che agli antibiotici. Banco di prova è ora la spending review: il premier batterà i pugni sul tavolo con i sindacati come ha fatto con la cancelliera Merkel a Bruxelles?
di Federico Punzi