sabato 23 giugno 2012
Nel dibattito pubblico italiano, in momenti diversi ed in base a quanto sta emergendo dalle inchieste condotte da due procure siciliane, quella di Palermo e quella di Caltanissetta, sulla presunta trattativa tra stato e mafia avvenuta in un periodo tragico della storia italiana, segnato dalle stragi che tra il 1992 e il 1994 vennero perpetrate da poteri mafiosi, spesso riaffiora la necessità di sapere cosa accadde realmente in quegli anni torbidi ed avvolti da una nebbia impenetrabile.
Il Quirinale, in riferimento a questa inchiesta della magistratura siciliana ed in base al contenuto di numerose conversazioni telefoniche intercettate e pubblicate su alcuni quotidiani (riguardanti l’ex presidente del Senato Nicola Mancino ed il consigliere giuridico del presidente della repubblica Loris D’Ambrosio) ha fatto sapere di avere agito nel rispetto della legge e delle procedure. Infatti nella giornata di mercoledì il presidente Napolitano ha dichiarato, a L’Aquila dove era in visita, che nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali che gli conferisce la carta costituzionale, è impegnato a rendere possibile il pieno e reale accertamento della verità sulle stragi di mafia che risalgono agli inizi degli anni novanta, quando cadde e capitolò la Prima repubblica e si determinò un vuoto di potere.
Ma quali sono i fatti da cui è derivata la polemica, con le accuse ingiuste di Antonio Di Pietro nei riguardi del Quirinale, che hanno suscitato le legittime proteste delle principali forze politiche? Nicola Mancino, nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria rivolta ad accertare se vi sia stata realmente la trattativa tra autorevoli uomini delle istituzione ed esponenti della mafia all’inizio degli anni Novanta per porre fine alle stragi che avevano già seminato terrore e distruzioni in alcune città italiane come Roma e Firenze, è indagato per falsa testimonianza. Inoltre pare che non abbia voluto avere, in presenza dei magistrati, un confronto con l’ex ministro guardasigilli Martelli. In ogni caso deve essere ricordato che questa inchiesta vede divisi i sostituti procuratori, Ingroia e gli altri, dal procuratore di Palermo Francesco Messineo, che non ha voluto firmare gli atti relativi alla conclusione di questa inchiesta.
In più a creare sconcerto e confusione nella pubblica opinione, dando l’impressione che la magistratura si muova in ordine sparso senza seguire in questa inchiesta delicata una linea univoca e comprensibile, vi è la constatazione, notata dal Francesco La Licata sulla Stampa di questa mattina, che vi sia una divisione sul merito ed i contenuti dell’inchiesta tra la procura di Palermo e quella di Caltanissetta. Il senatore Mancino, che ha assolto il suo ruolo nella vita pubblica in un momento assai difficile e che si ritiene ingiustamente accusato, si è rivolto al Capo dello stato, poiché in effetti l’inchiesta penale, per effetto della quale è imputato di falsa testimonianza, appare basata su elementi probatori né certi né precisi né concordanti.
Il Capo dello stato, un galantuomo al di sopra di ogni sospetto, ha sul caso interpellato il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Quest’ultimo, in presenza di un caso delicato in cui in gioco ci sono l’onorabilità di un uomo delle istituzioni come Mancino ed il prestigio delle istituzioni democratiche, che non possono essere esposte al rischio destabilizzante della delegittimazione attraverso le insinuazioni e i sospetti, ha scritto una lettera al Procuratore della Cassazione, per chiedere ed invocare chiarezza, in merito alla inchiesta delle procure di Palermo e Caltanissetta. A differenza di quanto pensa l’onorevole Di Pietro e contrariamente ai suoi epigoni del giustizialismo militante alla Travaglio, non vi è stato alcun intervento scorretto, per assicurare la impunità ad un autorevole uomo politico del passato e della Prima repubblica.
Questa vicenda dimostra quanto fossero previgenti e lungimiranti le considerazioni di Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia, che si ergono moralisticamente a difesa della legalità invocando la necessaria lotta contro la criminalità organizzata, per accreditarsi di fronte alla pubblica opinione come politici dal profilo immacolato e specchiato. Nel nostro paese è necessario un maggiore rispetto verso chi è indagato. Che ha il diritto inalienabile di difendersi, come le regole di uno stato di diritto impongono. Inoltre, visto che la mafia ed il crimine organizzato sono penetrati nella vita economica del paese, sottraendo tre regioni meridionali alla sovranità dello stato, sarebbe giusto e ragionevole attendersi dai magistrati che indagano sulla mafia, comportamenti lineari e tali da non destare sospetti con indagini condotte secondo linee investigative fra di loro inconciliabili ed incompatibili. In ogni caso si spera che la verità storica e giudiziaria sullo stragismo mafioso possa emergere e trionfare, come ha auspicato il presidente Napolitano.
di Giuseppe Talarico