giovedì 7 giugno 2012
I magistrati della Corte dei Conti avevano appena finito di parlare degli «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale con gli aumenti delle tasse, di metterci in guardia dal «pericolo di un avvitamento», cioè del rischio «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», ed ecco materializzarsi i primi segni di avvitamento: obiettivi di gettito mancati, almeno nei primi quattro mesi dell'anno.
Mancano all'appello 3,4 miliardi di entrate fiscali rispetto alle previsioni contenute nel Def. O meglio, le entrate in effetti aumentano rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, grazie agli aumenti delle tasse della seconda metà del 2011, ma non nella misura che il governo si aspettava. Un buco che rischia di mangiarsi i risparmi previsti dalla spending review e che potrebbe rendere necessario far scattare gli aumenti Iva già previsti per ottobre. Una dura lezione di economia reale con cui i professori dovrebbero fare i conti.
La politica fiscale non funziona come un bancomat. Non basta prelevare più tasse per ottenere più entrate, perché oltre una certa soglia di pressione fiscale complessiva (che in Italia abbiamo da tempo superato) si deprimono i consumi, si riducono le attività economiche, e si finisce per ottenerne di meno. Il ricorso alle maggiori entrate poteva essere giustificabile nel pieno dell'emergenza, lo scorso dicembre, quando il governo appena entrato in carica aveva poche settimane, se non giorni, per salvare il paese dal baratro. Ma ormai sono trascorsi sette mesi e l'approccio non è ancora mutato. Proprio ieri il governatore della Bce Mario Draghi ha ammonito per l'ennesima volta che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse» ma su tagli alla spesa corrente. Il problema italiano è la sua politica fiscale. Non è l'euro né la Merkel, non sono gli speculatori, né gli evasori, che di volta in volta vengono chiamati in causa dai politici e dai tecnici come alibi.
Che la direzione intrapresa dal governo Monti sia sbagliata, che i suoi sforzi per le riforme abbiano prodotto risultati parziali e insufficienti, e che ormai la sua debolezza politica sia tale da non permettergli di riprendere slancio, è qualcosa di cui stanno assumendo sempre maggiore consapevolezza gli investitori e i media internazionali, che avevano accolto Monti con una entusiastica apertura di credito. E lo ripetono da tempo nei loro editoriali Alesina e Giavazzi, secondo i quali all'Italia non servono altri incentivi e «infrastrutture fisiche», semmai immateriali («giustizia veloce, certezza del diritto, regolamenti snelli, amministrazione pubblica che faccia il suo dovere e non imponga costi enormi a cittadini e imprese, università che produca buon capitale umano e buona ricerca»). Quando i politici parlano di infrastrutture è «perché non sanno che altro fare, bloccati dai mille vincoli che impediscono le vere riforme». «Ciò che il governo oggi sta discutendo - concludono i due economisti - ci pare molto più simile alla vecchia politica che alla ventata innovatrice che respirammo per qualche settimana lo scorso novembre». Di quella ventata è rimasto sì e no uno spiffero.
Nel suo ultimo punto sul nostro Paese (5 giugno) il Financial Times scrive che «i problemi dell'Italia rischiano di prevalere». Complici «un governo litigioso, una burocrazia abbarbicata, e un primo ministro concentrato sulla scena internazionale, i problemi interni sembrano crescere oltre la capacità del suo governo tecnocratico di risolverli». Il quotidiano parla di un'Italia «in mano ai burocrati che combattono il cambiamento», ai «mandarini» della Ragioneria dello stato che «boicottano» i tagli alla spesa; registra i passi indietro nelle riforme del mercato dei servizi e del mercato del lavoro; vede un Monti che «non sta affondando il piede sull'acceleratore», che «ha perso interesse nei temi interni», con la testa ormai rivolta all'Europa e al G7, evidentemente conscio che solo da lì possono arrivare politiche per stimolare la crescita; e infine avverte che «i mercati ad un certo punto realizzeranno che l'Italia non ha fatto abbastanza sulle riforme». Insomma, l'impressione è che i tecnocrati abbiano «esaurito le loro forze».
Qualcuno dirà che è colpa della perfida Germania, che l'errore di Monti è stato di affidarsi in maniera automatica alla ricetta berlinese, all'austerità teutonica. Facile ironizzare sui tedeschi che hanno distrutto l'Europa due volte con le guerre e ora ci starebbero provando una terza con l'economia. Peccato manchi un piccolo particolare: la ricetta di Berlino non era affatto solo tasse, tagli risibili alla spesa, zero dismissioni e zero riforme. Basta rileggersi la lettera di agosto della Bce. Quante cose sono state fatte? C'è stata una «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali», oppure municipalizzate e ordini sono ancora tutti in piedi? Sono state avviate «privatizzazioni su larga scala», oppure Snam viene svenduta alla Cdp? I banchieri centrali chiedevano di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva», in modo che gli accordi al livello d'impresa fossero preminenti rispetto a quelli nazionali. Ebbene chi ci ha provato - la Fiat - viene messo alla gogna. Chiedevano «una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti», ma subendo i diktat di sindacati e sinistra il governo ha messo in piedi una "controriforma", che irrigidisce il mercato in entrata e non riduce l'incertezza giuridica in uscita. Gli obiettivi di bilancio, secondo la lettera della Bce, dovevano essere conseguiti «principalmente attraverso tagli di spesa». È stato fatto l'opposto. Si chiedeva di «valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Monti sugli statali non ha ancora deciso tra la Fornero e Patroni Griffi. È stata forse introdotta una «clausola di riduzione automatica del deficit»? E che ne è dell'indicazione di «abolire o fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»? La Bce suggeriva «l'uso sistematico di indicatori di performance nella pubblica amministrazione (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione)», mentre si discute di togliere quei pochi introdotti dalle riforme Brunetta e Gelmini, e il ministro Profumo quasi si scusa per aver osato solo pensare di favorire il merito. Cosa ci si poteva aspettare da ministri che si sono rivelati molto meno "tecnici" del previsto, quasi tutti burocrati politicizzati che credono nella spesa pubblica e nel dirigismo?
di Federico Punzi