Tornare a vivere dopo il terremoto

sabato 2 giugno 2012


Mirandola, appena fuori dal centro storico che ora è zona rossa, completamente recintato e immerso nel silenzio. Ad un piccolo bar rimasto aperto in un giardinetto una ragazza attacca bottone: «Mi addormenterei qui», svela. Tira una leggera brezza fresca anche se il sole si fa sentire e l'umidità nell'aria non fa che aumentare la sensazione di calore. «Chissà sotto quelle tende…». «Immagino. Io ho dormito in una piccola tenda stanotte, ma dietro casa», risponde. Quindi prende la sua piadina al cotto e si va ad accomodare ad un tavolino, da sola. 

Il terremoto di martedì ha lasciato il segno non soltanto sulle case, le chiese e i capannoni: attorno a lei, altre persone se ne stanno per conto loro, chi sfoglia un giornale, chi beve una birra, chi un caffè. 

Solo al bancone c'è un gruppetto che chiacchiera e ripercorre gli attimi in cui la terra è tornata a tremare, mentre in una famiglia riunita per un pranzo al volo si cerca di convincere in ogni modo la nonna a salire in collina nella casa della nuora. 

I viali del borgo sono tranquilli, dietro gli alberi che li costeggiano alcune abitazioni mostrano le loro ferite: i tetti hanno ceduto e alcuni mattoni sono stati sbrigativamente ammassati nel giardino. 

Gli sfollati sono al Campo Friuli, allestito nei pressi del centro sportivo: il campo con la pista d'atletica è il quartiere generale, presidiato dai volontari che ammettono i giornalisti solo a scaglioni durante la giornata. Al cronista che tenta di scroccare una visita veloce, cordialmente, ma senza indietreggiare di un passo rispondono di no. Una sfilza di macchine è parcheggiata appena fuori: c'è chi va e viene dagli appartamenti dove sperano di recuperare qualcosa. 

Gli extracomunitari fanno la fila ai bagni da campo per dare una lavata ai figli che appena tornano lindi e con abiti nuovi, riprendono a correre come scalmanati. 

La solitudine di chi ha perso tutto o semplicemente porta dentro l'enorme spavento è palpabile a Cavezzo, tra i più colpiti, dove per quanto gli abitanti si scambino saluti e mutuo sostegno quando s'incontrano per strada, si muovono senza una meta. Non sanno dove andare, marciano su e giù per la via dove c'è casa. Il contegno è però forte e a parte qualcuno che cede di nervi di schianto, una tranquillità apparente scandisce il passare delle ore. I figli portano i genitori anziani sotto le piante di un parco pubblico: ma se i vecchi non restano fermi, le madri si fanno compagnia standosene sedute sulle panchine o su delle sedie. 

Parlano del più e del meno, ma dalle espressioni che rimangono le stesse si intuisce che non sono a loro agio, che sono lontane dal loro ambiente quotidiano. 

Hanno ai piedi le pantofole, uno scialle di lana sulle spalle. Le telecamere inseguono i cittadini dal giorno precedente, alla richiesta se sia possibile o meno fare un paio di domande spesso la risposta è negativa. C'è poi chi si dimostra disponibile, come un signore alto e magro, il cappello schiacciato in testa e le mani da sgobbone. 

La casa è a posto, ma l'azienda per la quale lavora «è venuta giù» e se non si mette a piangere, poco ci manca. Di fronte ad una palazzina con le crepe che ne percorrono le pareti, un altro signore schiva la tensione ridendoci sopra: «L'ho proprio scampata bella». Intanto l'inviata della televisione spagnola Tve chiede informazioni per raggiungere la casa da dove martedì sera hanno estratto una donna viva: le informazione del vigile urbano non si sono rivelate così precise. 

Percorrendo le strade che collegano un paese all'altro si attraversano i quartieri industriali. Che poi a chiamarli industriali si fa un torto all'idea imprenditoriale della zona: sono fabbriche, sì, ma soprattutto artigiani che hanno costruito una realtà che compete per qualità nel proprio settore. Solide, ma non nelle fondamenta strutturali. 

Lo scenario degli impianti immobili, dei soffitti che hanno ceduto di colpo non lascia spazio alle polemiche di fuori: sono morti imprenditori e operai. I mezzi dei pompieri, della polizia, dei carabinieri e dei tecnici oltre a quelli dei proprietari sono gli unici a muoversi nei parcheggi. Si prosegue verso nord, verso il Mantovano anch'esso colpito. 

Si procede per stradine di campagna che costeggiano i campi coltivati a frumento o mais e si incontra un passato caduto a terra: sono le case di mattoni, una qui una là, almeno un paio di secoli di storia che non hanno resistito al sisma. 

Alcune erano già abbandonate da tempo, lo si intuisce dagli arbusti cresciuti tutt'attorno. Altre al contrario fino a qualche ora prima erano abitate: ci sono piantate delle tende da campeggio fuori all'aperto, nel giardinetto.

I colori e i profumi della Bassa: gli agricoltori hanno da poco tagliato il fieno di maggio e la fragranza entra nell'abitacolo della macchina che ha finestrini abbassati. 

Si arriva a Quistello e infine a Moglia, dopo un lungo rettilineo durante il quale si contano poche vetture. Anche a Moglia il centro storico è chiuso all'accesso e nella piazza appena dietro stanno sgomberando un palazzo sotto un sole già estivo. 

Per la via che porta alla chiesa avanzano una madre ed una figlia in bicicletta che cercano la gattina scappata, mentre un gruppetto di anziane siede sul ciglio della strada e l'unico uomo presente si guarda bene dall'unirsi, preferendo un angolo nei pressi di un cancello. 

Deserto, dal latino "desertum" che a sua volta deriva dal verbo "deserere": abbandonare, lasciare. Se non fosse realtà, si potrebbe pensare alla scenografia perfetta per una pellicola da frontiera con i due rivali che contano i passi per il duello a colpi di pistola, con qualche curioso che spia da dietro le colonne dei portici. 

Non stavolta: ai portici non ci si può arrivare e questo soprattutto non è un film.


di Dario Mazzocchi