mercoledì 30 maggio 2012
Chi tocca la casta delle toghe muore. Professionalmente, s'intende. Di certo deve fare penitenza, forse recitare qualche avemaria, ma solo dopo aver scritto una lettera formale di scuse a Repubblica. Giornale che, malgrado la nascita del Fatto quotidiano, rimane l'organo più prestigioso delle procure. In fondo ad Antonio Catricalà non è andata poi così male: non è stato licenziato, non è stato arrestato. Ancora. È solo stato indicato al pubblico ludibrio e condannato al linciaggio per lesa maestà. Poi costretto a far marcia indietro e a chiedere venia con una penosa missiva aperta a mezzo stampa. Un tempo c'era la gogna. Ora basta calpestare l'amor proprio di fronte alla nazione e sperare nell'assoluzione.
Ma che cosa aveva fatto di così terribile il sottosegretario alla presidenza del Consiglio? Aveva chiesto un parere ufficiale a Corte dei Conti e al Consiglio di Stato su una riforma che, affrontando la riorganizzazioni delle libere professioni e delle magistrature, prevedeva anche un intervento sul Csm. Insomma un sondaggio sulla fattibilità di norme che riguardavano non solo, ma anche l'organo di autogoverno della magistratura. Magari sarà anche stata una riforma sbagliata: dipende dai punti di vista, dall'interpretazione della dottrina, dal modello di democrazia che si ha in mente. Ma è il plotone di esecuzione che fa impressione. Una proposta si può bocciare, senza per questo chiedere l'annientamento di chi l'ha elaborata. Basta dire no, votare contro, passare ad altro. Invece si è resa necessaria la genuflessione. Nero su bianco, sul giornale di Ezio Mauro. Eccola: «Non c'era alcun intento aggressivo nei confronti dei magistrati, né della loro autonomia, garanzia assoluta della convivenza civile, anzi la ratio era di rinforzarne l'immagine». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si affretta a spiegare anche che le norme sono state «subito archiviate». E sia chiaro, precisa ancora Catricalà, che «il presidente Monti, da me avvertito ritenne inopportuna la proposta sul Csm e il ministro della Giustizia sollevò una questione di praticabilità costituzionale della riforma e il testo per quella parte fu archiviato». Poi il mea culpa finale: «Iniziò per il resto il confronto con la Corte dei Conti e con il Consiglio di Stato, per conoscere l'avviso di questi organismi sulla bozza di regolamentazione, ciascuno per la parte di propria competenza. In una cosa ho sbagliato: non ho precisato agli uffici di espungere la norma sul Csm». Confessione finita, penitenza recitata. Per l'assoluzione, si vedrà.
di Cristina Missiroli