L'odissea giudiziaria di un giocattolo

domenica 15 aprile 2012


Correva l'anno 2006. Il 29 settembre, per l'esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, "situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l'Irpinia. A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che i due patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l'accusa in un paio di righe: "Detenzione illegale di arma".

I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. Sono dei militari... E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: "Non luogo a procedere".  

E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa "non luogo a procedere"? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un'arma che non è un'arma. Perché la pistola che si diceva "fabbricata prima del 1890" in realtà è una pistola giocattolo, «un oggetto vilissimo, che sarebbe potuto essere facilmente scambiato per una bomboniera in un matrimonio di cacciatori», dice l'avvocato dei due fratelli, Giustino Donofrio.

I due fratelli l'avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un'arma, è un giocattolo, un ricordo che ci ha lasciato papà quando è morto». Niente da fare. "Detenzione di arma illegale". Bastava guardarla, quell'"arma illegale": «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del '500, e messa in bella mostra sopra il caminetto dell'abitazione dei due fratelli». 

Niente da fare. Per i carabinieri era "arma illegale". I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista "l'arma illegale"…

Subito in caserma, per l'interrogatorio di rito. Poi l'avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l'imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c'è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l'avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l'avvocato: «All'apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c'è stato nemmeno bisogno di un'analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

No, non c'è nulla da ridere: sei anni, carabinieri, rapporti, verbali, interrogatori, magistrati, rinvio a giudizio. Per perseguire il reato di detenzione di giocattolo. Vicenda grottesca, che farebbe la felicità di un Andrea Camilleri; e però il grottesco si trasforma in una smorfia, perché una storia simile si è svolta anni fa, e il caso ha voluto che se ne venisse a conoscenza e ci si occupasse di una storia che supera ogni fantasia possibile.

Immaginate un dialogo di questo tenore:

«Signora, lei è in arresto».

«Perché mai? Cos'ho fatto?».

«Abbiamo trovato una pistola in macchina».

«Ma guardi che questa pistola è di mio figlio, controlli: è un giocattolo, di plastica…».

«Non faccia storie, signora, ci segua».

«Ma è uno sbaglio, vi dico. E' una pistola che ho comperato in una bancarella. L'ha dimenticata nel portabagagli mio figlio che ha dieci anni…».

«Poche chiacchiere, signora. La legge parla chiaro. Lei è in arresto…».

Un dialogo incredibile, surreale; eppure, parola più, parola meno, è quanto si sono detti la signora Caterina Mazzeo e i componenti di una pattuglia di carabinieri che avevano intimato l'alt per uno dei tanti controlli di routine. Racconta la signora Mazzeo: «Ero di passaggio a Squillace, in Calabria, l'11 marzo 1984. Sono stata fermata per una perquisizione, e un carabiniere mi presenta la pistoletta. Dico che è di mio figlio. Niente da fare, mi sequestrano l'auto, i soldi. Gridavo che si trattava di un giocattolo, e loro: la legge parla chiaro, e mi hanno arrestato».

Si trattava davvero di una pistola giocattolo. Pagata all'epoca dodicimila lire; era in libera vendita, autorizzazione ministeriale numero 50-1241/10 C.N./E del 9 febbraio 1979; spara palline di plastica. Nel verbale d'arresto i carabinieri scrivono che la signora Mazzeo aveva un atteggiamento sospetto. Guidando la macchina? Protestando, quando l'arrestavano, perché la pistola non era una pistola, ma un giocattolo? Chissà. La signora Mazzeo è stata particolarmente sfortunata. Oltre a incappare in una pattuglia di carabinieri talmente zelante da meritare l'inserimento d'ufficio nei libri di barzellette sull'Arma, ha anche precedenti penali.

 Pistola giocattolo, atteggiamento "sospetto", fedina penale con qualche macchia: quanto basta per chiudere la signora in cella, in attesa di appurare come stanno esattamente le cose. Se la ricorderà, quella pistola giocattolo, la signora Mazzeo; è rimasta chiusa in cella per un mese, prima che qualcuno si accorgesse che davvero si trattava di un giocattolo; che quella pistola era buona solo a fare rumore.

«E' finita», dice la signora Mazzeo una volta scarcerata. «Ma i segni chi li cancella? E mio figlio che si vergogna davanti ai compagni di scuola? Mi hanno rovinata, avevo già i miei guai, mi hanno anche sfrattata, l'ufficiale giudiziario è arrivato mentre ero dentro, se fossi stata presente avrei risolto al più presto la cosa. Mi sembrava una follia. Stare in galera per un giocattolo! Solo a chi non ha agganci, poteva accadere, io non avevo nemmeno l'avvocato, devo mantenere mio figlio… E poi il carcere terribile di Termini Imprese, qualcuno deve fare qualcosa. Le ventiquattr'ore di un giorno equivalgono ad anni. A mente fredda pensavo che per una simile sciocchezza la giustizia non poteva perdere tempo a fare il processo, con tutti i criminali veri arretrati che ha. E per una come me, hanno preso perfino una macchina, i carabinieri, e con la scorta di una volante mi hanno trasferito da Locri a Termini Imprese. Come se fosse tutto sul serio!».

Hanno fatto tutto sul serio, eccome. E per fortuna che al processo i magistrati hanno capito, hanno voluto capire, che si trattava di un giocattolo; e la signora Mazzeo è stata assolta.

Quando ci capitò di raccontare il caso della signora Mazzeo, Leonardo Sciascia, sillabò: «Si può considerare un errore il caso di una signora che si fa un mese di carcere perché nella sua automobile i carabinieri trovano una pistola-giocattolo del figlio? E' possibile che tra le mani esperte di un carabiniere una pistola-giocattolo continuasse a sembrare una pistola vera e che per un mese intero quella finta arma abbia vagato da un ufficio all'altro senza che nessuno la riconoscesse per quello che era, mentre la signora vagava da un carcere all'altro? Vicenda allucinante…».

Chissà cosa direbbe oggi, nell'apprendere del caso dei due fratelli di Ruvo del Monte. Da ricordare, quando ci dicono, come ci dicono, che quella della giustizia e della sua amministrazione non è un problema urgente, la madre di tutte le questioni con cui deve fare i conti questo paese.


di Valter Vecellio