Imprenditori suicidi: una strage di stato

martedì 3 aprile 2012


Strage, mattanza, ecatombe. Non esistono termini troppo efferati per definire il vero e proprio bagno di sangue delle imprese italiane nel 2011. Un annus horribilis tutto italiano, nel quale alla crisi si sono sommati la pressione fiscale più alta degli ultimi 30 anni, i ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione e la stretta del sistema bancario ai prestiti.

Muoiono i piccoli imprenditori. Dal 2009 ad oggi, secondo i dati della Cgia Mestre, soltanto nel Veneto sono stati 50 gli imprenditori che a causa della crisi si sono tolti la vita. Gli ultimi in ordine di tempo: un artigiano di Noventa di Piave che si è tolto la vita per mancanza di liquidità, ed un commerciante tarantino che l'ha fatta finita dopo essersi visto negare dalla banca un fido di appena 1.300 euro. Senza contare i drammatici tentativi di suicidio di Bologna e di Novara. 

Muoiono anche le imprese. Soltanto nel 2011 sono state ben 11.615 le aziende hanno chiuso i battenti per fallimento. «Un dato mai toccato in questi ultimi quattro anni di grave crisi economica», dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia. Un record negativo che ben rappresenta quanto siano in difficoltà le imprese italiane, soprattutto quelle di piccole dimensioni, nonostante siano loro il motore occupazionale ed economico del Paese. 

I contraccolpi sull'occupazione sono stati devastanti: è la stessa Cgia di Mestre a stimare la perdita di posti di lavoro seguita alla chiusura delle aziende in oltre 50mila unità. Ma, come sottolineano gli artigiani mestrini, il fallimento di un imprenditore non è solo un fattore economico. Il più delle volte viene vissuto anche come un fallimento personale, aggravato dal senso di colpa per la responsabilità sentita nei confronti della propria famiglia e di quelle dei propri dipendenti. Ed è proprio questo senso di colpa che, in casi estremi, ha portato decine e decine di piccoli imprenditori a togliersi la vita. Fallimento, rimorso, disperazione, vergogna. Un cocktail troppo amaro da mandare giù mentre si assiste impotenti alla distruzione del duro lavoro di una vita. 

Per Bortolussi siamo in pieno allarme: «Bisogna intervenire subito, e dare una risposta emergenziale ad una situazione che rischia di esplodere. Per questo invitiamo il Governo ad istituire un fondo di solidarietà che corra in aiuto a chi si trova a corto di liquidità». Spesso, spiega la Cgia, questi micro imprenditori si trovano costretti a gesti estremi perché si vedono rifiutare dalle banche richieste molto modeste, che il più delle volte non superano nemmeno i 5-6mila euro. Da qui la richiesta di un fondo di soliderietà che, dice Bortolussi, potrebbe fare molto con molto poco: «Probabilmente, si potrebbe affrontare con successo questa drammatica situazione anche solo con un plafond di qualche decina di milioni di euro».

Ma al momento le parole d'ordine di politica e governo sembrano essere rivolte sempre e soltanto verso un sempre più stringente rigore. Spremere fino all'ultimo centesimo, ovunque sia possibile farlo. Secondo l'Istat, nel 2012 la pressione fiscale ha raggiunto il 45% dei redditi degli italiani. In realtà va molto peggio: nel calderone dei conteggi, infatti l'Istat considera anche l'economia sommersa, quantificata tra i 255 e i 275 miliardi di euro l'anno. Ma il sommerso, lo dice la parola stessa, non compare nel pallottoliere dell'erario, e quindi non paga le tasse. Il risultato? Sulle spalle degli italiani onesti le tasse gravano quest'anno per il 52% dei propri redditi, una percentuale che nel 2013 arriverà al 55%. 

Non è finita: ogni anno le aziende italiane sborsano qualcosa come 23 miliardi di euro per compilare montagne di scartoffie in materia di lavoro, di ambiente, di fisco, di privacy, di sicurezza sul lavoro, di prevenzione incendi, di appalti e di tutela del paesaggio. Se lo stato decidesse di sottoporre la burocrazia ad una drastica cura dimagrante, e dimezzasse questa cifra, il sistema delle imprese potrebbe creare oltre 300mila posti di lavoro. 

Ma sono solo castelli in aria. Perché proprio mentre comanda rigore e sobrietà, lo stato è l'unico a non dare il buon esempio. Non lo fa a cominciare dalla spesa pubblica, mai così alta negli ultimi 30 anni. Tra il 1981 e il 2011, infatti, le uscite correnti sono aumentate del 105%, pari a oltre 344 miliardi di euro in più: il 31 dicembre del 2011, la spesa corrente aveva raggiunto quota 672,6 miliardi di euro. 

Risparmiare, razionalizzare, tagliare? E perché mai, quando è così facile fomentare folle inferocite contro il "parassita" di turno con il Suv e lo ski pass a Cortina? Poco importa che sia proprio lo stato il primo ad "evadere" i pagamenti cui sarebbe obbligato. A conti fatti è lui l'evasore più grande, dal momento che ha in tasca 90 miliardi di euro che non gli appartengono: quelli delle migliaia di piccole e medie imprese italiane che hanno lavorato per la PA, e che non ha mai pagato. C'è una direttiva europea che lo obbliga a rimediare, visto che ha accumulato ritardi anche di anni. Ma lo stato, ancora una volta, se ne frega. Perché lui può. Anzi, sull'onda del rigore, ha già preteso e riscosso da quelle imprese le tasse sulle stesse fatture che non ha mai liquidato.

Il sistema bancario ci mette del suo nel peggiorare la situazione. Nell'ultimo trimestre del 2011 i prestiti alle imprese sono diminuiti del -1,5%. Soltanto nel mese di dicembre, il calo è stato addirittura del 2,2%. Come se non bastasse, le banche che ancora erogano prestiti, lo fanno a tassi sempre più vertiginosi: sempre secondo i calcoli della Cgia, infatti, nel 2011 gli aumenti dei tassi di interesse sono costati alle imprese ben 3,7 miliardi di euro. Gli aumenti più consistenti sono stati sui per i prestiti di durata inferiore ad un anno: +1,44%, ma l'intera media dei tassi sui prestiti è insostenibile: 4,97%. «È tutta colpa della crisi di liquidità», è il mantra delle banche. Proprio mentre la Bce sta letteralmente inondando gli istituti di credito italiani con valanghe di miliardi al tasso dell'1%, allo scopo di «sostenere l'impresa e lo sviluppo». Ma di questi soldi, probabilmente, le imprese non vedranno nemmeno un cent.


di Luca Pautasso