lunedì 22 dicembre 2025
La copertina di Time dell’11 dicembre scorso ha sollecitato diverse riflessioni che meritano attenzione. In particolare, Paolo Benanti e Sebastiano Malfettone, sul Corriere della Sera del 20 dicembre 2025, vi individuano un sintomo eloquente del nostro tempo: dove nel 1932 la rivista ritraeva, come è noto, operai in pausa pranzo su una trave durante la costruzione di un grattacielo newyorkese, oggi siedono sulla stessa trave sospesa nel vuoto Mark Zuckerberg e Sam Altman, gli “architetti dell’Intelligenza artificiale”. La continuità visiva – la medesima immagine, la stessa posa – celerebbe una frattura profonda. Non più chi costruisce con le mani materiali e cemento, ma chi plasma con gli algoritmi coscienze e linguaggi. Il passaggio segna, sostengono gli autori, una trasformazione che va oltre il sociale: “Dal materiale all’immateriale”, dai corpi alle emozioni. Se Karl Marx permetteva di leggere lo sfruttamento novecentesco e Michel Foucault ne svelava i meccanismi disciplinari sui corpi, oggi – richiamando Byung-chul Han – si tratterebbe di una mutazione più radicale: dalla biopolitica alla psicopolitica, “dal controllo dei corpi al controllo delle emozioni”. Le tecnologie digitali, secondo gli autori, non si limitano a sorvegliare, come aveva intuito Shoshana Zuboff parlando di “capitalismo della sorveglianza”, ma penetrano nell’intimo, trasformando affetti e desideri nella “materia prima del capitalismo digitale”.

La preoccupazione si fa ancora più concreta quando lo stesso Sam Altman ammette che l’Intelligenza artificiale raggiungerà capacità di “persuasione superumana” ben prima di qualsiasi vera superintelligenza generale. Il rischio non sta dunque in una macchina onnisciente futura, ma nella capacità già operante di manipolare emozioni, decisioni, il tessuto stesso dei nostri linguaggi. Di fronte a questa rivoluzione che gli autori definiscono “epistemica prima che economica”, l’appello è a costruire “un’etica per la difesa dell’umano”, riconosciuta dagli stessi come “un timido tentativo di articolare un pensiero critico”. Tuttavia, è proprio a questo punto che iniziano i veri problemi. L’urgenza dell’appello non può nascondere l’interrogativo che si apre dietro di esso: su quale fondamento può reggersi questa etica? O, andando ancora più in profondità, la nostra è un’epoca in cui è possibile pensare il fondamento? La risposta che la nostra civiltà ha ormai maturato è inequivocabile: no. L’Occidente si è progressivamente persuaso che non esista alcun fondamento assoluto e incontrovertibile. Questa persuasione non è un’opinione marginale o una provocazione filosofica: è il tessuto stesso del nostro tempo, ciò che lo distingue da ogni epoca precedente. E senza un fondamento che si imponga come verità incontrovertibile, qualunque prospettiva etica diventa inevitabilmente retorica, arte della persuasione, gioco di forze in competizione. Questa dissoluzione del fondamento non risparmia nemmeno l’ambito che sembrava più immune da essa: la scienza. Da oltre un secolo, il sapere scientifico ha rinunciato all’idea di attingere verità assolute. Le sue proposizioni non poggiano su certezze definitive, ma su strutture ipotetico-deduttive e su probabilità statistiche. La scienza procede per congetture e confutazioni, per approssimazioni progressive, mai per possessi definitivi del vero. Persino nelle sue conquiste più solide, essa riconosce il proprio carattere provvisorio, la propria apertura alla revisione.
Ma c’è un aspetto ancora più profondo che sfugge a chi invoca un’etica per la tecnologia: ci si dimentica che sul pianeta si contendono il predominio molteplici prospettive etiche, ciascuna portatrice di una propria idea del bene. L’etica capitalistica identifica il bene con l’espansione illimitata del profitto individuale. L’etica islamica lo riconosce nella sottomissione alla volontà di Allah rivelata nel Corano. L’etica cristiana lo individua nell’amore del prossimo e nella salvezza eterna dell’anima nel Regnum Dei. L’etica marxista lo scorge nell’emancipazione delle classi oppresse e nella società senza classi. Ognuna di queste visioni ritiene di possedere la verità sul bene da realizzare. Ognuna è in conflitto con le altre. Quale di esse dovrebbe guidare lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale? E in nome di quale criterio superiore si potrebbe decidere? Soprattutto, ci si dimentica che la tecnoscienza stessa non è affatto neutra, ma possiede una sua etica intrinseca. Quest’etica consiste nel superamento indefinito dei limiti: limiti della conoscenza per la scienza, limiti delle possibilità realizzate per la tecnica. La tecnoscienza è essenzialmente volontà di onnipotenza che non riconosce confini prestabiliti. Ed è proprio qui che si manifesta la sua coerenza rispetto alla premessa nichilistica della nostra epoca. Se non esiste un fondamento assoluto, se ogni verità è provvisoria, allora non esistono nemmeno limiti assoluti da rispettare.
L’etica della tecnoscienza è la conseguenza rigorosa dell’assenza di fondamento: dove nulla è definitivamente vero, tutto è possibile. Le altre etiche che vorrebbero porre freno a questo processo si trovano, invece, in una contraddizione insanabile. Esse pretendono di imporre limiti assoluti – non fare questo, non oltrepassare quella soglia – ma per farlo devono presupporre un fondamento assoluto della morale: Dio, la natura umana, la dignità della persona, il bene comune. Tuttavia, questi fondamenti vengono semplicemente affermati, non dimostrati. Vengono proclamati con forza retorica, ma non giustificati filosoficamente. Come potrebbero esserlo, del resto, in un’epoca che ha fatto dell’assenza di fondamenti la propria convinzione più profonda? Il compito di chi voglia davvero interrogarsi sui problemi che i popoli dovranno affrontare – di cui l’Intelligenza artificiale è solo l’inizio – non può dunque limitarsi a invocare le armi spuntate dell’etica. Occorre invece ripensare in profondità le ragioni che ci hanno condotto davanti a questa sfida epocale completamente disarmati: senza verità, senza fondamento. Occorre chiedersi se esista un’alternativa a questa condizione. E se tale alternativa esista, essa dovrà necessariamente tornare a pensare – non a proclamare, ma a pensare – la verità e il fondamento. Non come nostalgia di certezze perdute, ma come esigenza del pensiero stesso che voglia essere all’altezza del proprio compito. Perché, come insegnava Cartesio all’alba della modernità, Fundamentum inconcussum veritatis: solo un fondamento incrollabile della verità può reggere l’edificio della conoscenza. Senza di esso, rimane soltanto la persuasione. E la persuasione, come ci ricordano gli stessi architetti dell’intelligenza artificiale, è destinata a diventare superumana.
di Claudio Amicantonio