“Keeper”, un faro tra i videogame puzzle

mercoledì 29 ottobre 2025


Non è il nuovo kolossal di Tim Schafer – quello, assicurano da Double Fine, arriverà in seguito – ma Keeper si impone come un’opera intima, sperimentale e sorprendentemente evocativa. Frutto della visione di Lee Petty, storico art director di Brütal Legend, il gioco si discosta dai toni ironici e caotici tipici dello studio per proporre un racconto silenzioso e poetico, che si consuma nell’arco di circa quattro ore. Un’esperienza breve, ma densa di suggestioni, capace di lasciare un’impronta profonda nonostante la sua apparente semplicità. L’incipit è tanto audace quanto affascinante: il giocatore interpreta un faro vivente, una torre luminosa dotata di quattro zampe meccaniche, che si muove sul terreno con l’eleganza inquietante di un ragno. Durante una tempesta, un piccolo uccello chiamato Ramoscello trova rifugio tra le sue luci, segnando l’inizio di un legame inatteso e toccante. Da quel momento, i due intraprendono un viaggio attraverso un mondo in rovina, divorato dall’oscurità, alla ricerca di una risposta – o forse di un senso – in mezzo al silenzio.

Keeper è, innanzitutto, un racconto senza parole. Nessun dialogo, nessuna spiegazione: tutto è affidato al linguaggio delle immagini, dei suoni e delle atmosfere. È il mondo stesso a parlare, con la malinconia delle rovine e il respiro metallico del vento che attraversa le lande abbandonate. Come nei titoli di Giant Squid o in certe opere di ispirazione Souls-like, l’interpretazione diventa parte integrante dell’esperienza: il giocatore è chiamato a leggere i simboli, a intuire la storia, a costruirne una propria versione personale. La direzione artistica è il cuore pulsante dell’opera. Ogni inquadratura, ogni frammento di luce, ogni paesaggio – dalle foreste bioluminescenti alle rovine di antiche civiltà – restituisce un senso di meraviglia visiva. La colonna sonora, discreta ma potentissima, accompagna il viaggio come un sussurro, amplificando i momenti di scoperta e solitudine. Keeper è un capolavoro estetico, un gioco che si guarda e si ascolta più che si gioca, in grado di evocare emozioni rarefatte e quasi meditative.

Ma tanta bellezza non è priva di ombre. Sul piano tecnico, il titolo mostra limiti evidenti: la telecamera, alternando inquadrature fisse e dinamiche, finisce spesso per disorientare, bloccandosi dietro gli ostacoli o offrendo prospettive scomode. Il sistema di controllo, pensato per trasmettere il peso e la lentezza del faro, risulta a tratti goffo, soprattutto nei passaggi più stretti. A peggiorare l’esperienza contribuisce un frame rate fisso a 30 fps, privo di modalità “performance”, che rende la navigazione meno fluida di quanto meriterebbe un’opera di tale impatto visivo. Anche nelle sezioni più lineari, muoversi diventa un esercizio di pazienza, un piccolo combattimento contro la fisica del gioco. Eppure, è proprio questa sua imperfezione a rendere Keeper un titolo prezioso. In un’industria sempre più dominata dai blockbuster e dai sequel milionari, la produzione di Double Fine rappresenta un atto di coraggio creativo. Un’opera che osa essere diversa, che preferisce la contemplazione all’azione, la poesia al ritmo frenetico.

Keeper è, in definitiva, un manifesto dell’importanza di piattaforme come l’Xbox Game Pass: uno spazio dove esperimenti narrativi e artistici possono trovare visibilità senza piegarsi alle logiche di mercato. Così come Pentiment o Grounded, anche questa piccola gemma conferma che la diversità di linguaggio, estetica e ritmo è ciò che mantiene vivo il videogioco come forma d’arte. Un faro, nel senso più autentico del termine, acceso in mezzo all’oscurità dell’omologazione.


di Redazione