mercoledì 1 ottobre 2025
L’approccio europeo verso l’innovazione digitale rischia di amplificare la nostra arretratezza tecnologica
Alcuni giorni fa Apple ha pubblicato un dossier sulle opportunità perse dai consumatori europei a causa degli eccessi regolatori dell’Ue, a partire dal Digital Markets Act (Dma). Ovvio che l’azienda di Cupertino sta, legittimamente, conducendo una campagna a difesa dei suoi interessi. D’altronde, le minacce di Donald Trump sullo stesso tema mostrano che c’è, da parte dell’amministrazione americana, una chiara intenzione di difendere le aziende tecnologiche a stelle e strisce, che sono le più colpite dal Dma: su sette aziende designate come “gatekeeper” – cioè di dimensioni rilevanti e con una funzione sistemica, quindi soggette agli obblighi e ai divieti del Dma – cinque sono americane (Alphabet, Amazon, Apple, Meta e Microsoft), una cinese (ByteDance) e una sola europea (Booking). Chi ha ragione? Chi ha torto? Bisogna distinguere due livelli. Sul piano politico, è comprensibile che le intemperanze della Casa Bianca rendano difficile per la Commissione riaprire un dossier che, per lungo tempo, è stato una delle sue bandiere. Eppure, non si può non notare che anche a livello europeo cominciano a emergere delle fratture, tanto che persino il Rapporto Draghi mette sotto accusa il complesso della regolamentazione digitale.
Politica a parte, è necessario analizzare a freddo le regole introdotte negli scorsi anni e chiedersi se davvero esse rappresentano una tutela dei consumatori o se, al contrario, finiscono per impedire non solo di innovare, ma addirittura di applicare le innovazioni già disponibili (l’ultimo caso di cui si è parlato nelle cronache riguarda proprio Apple). Nel passato abbiamo più volte spiegato quali sono le ragioni per cui il Dma (e, più in generale, l’approccio europeo verso l’innovazione digitale) rischia di amplificare la nostra arretratezza tecnologica: si veda, in particolare, questo libro che è possibile scaricare gratuitamente. In sintesi, la normativa europea si spinge oltre la ordinaria tutela della concorrenza e muove dal presupposto di fatto che qualunque grande impresa digitale stia automaticamente abusando dei consumatori. Su queste basi, impone una lunga serie di obblighi e divieti incompatibili con la direzione che ha preso l’innovazione in quel campo. Questo non tutela i consumatori: li priva di opportunità a cui possono accedere tutti gli altri Paesi. E non rafforza l’Europa: ne accentua l’isolamento e l’arretratezza.
Che fare? Sul piano tecnico, è necessario mettere in discussione l’impianto regolatorio degli scorsi anni. Su quello politico, l’Ue deve manovrare lateralmente. Un modello positivo viene dal Regno Unito, che ha recentemente raggiunto un accordo con Meta sulle modalità di erogazione dei suoi servizi, consentendo un modello “pay or consent” analogo a quello contro il quale Bruxelles ha alzato il cartellino rosso. Il punto è che Londra ha dimostrato di avere quel pragmatismo che all’Europa in questo momento sembra mancare: prima ancora di modificare formalmente le regole, l’Ue potrebbe e dovrebbe dotarsi di maggiore flessibilità nella loro attuazione, dando il giusto peso ai benefici che i consumatori derivano dai servizi digitali che scelgono di sottoscrivere.
di Istituto Bruno Leoni