L’etica a rischio

venerdì 25 ottobre 2024


Ripensare la comunicazione tra grottesco ed estremismo

I social media permettono ad un numero enorme di persone di stare in contatto, presentare la loro esistenza, creare e diffondere materiale. Che si tratti di foto, reel, live, ogni utente di Instagram o TikTok può ottenere visibilità nel palcoscenico permanente dei social network. È però un palcoscenico virtuale, direi invisibile, che se da una parte non comporta la difficoltà e l’ansia di trovarsi di fronte a un’utenza reale e fisica, dall’altra espone al rischio che i contenuti trasmessi (lo “spettacolo”) vengano fraintesi, criticati, emulati, con conseguenze anche pericolose. Sebbene siano molti coloro che propongono contenuti corretti, eticamente accettabili, che vogliono realmente proporre tematiche interessanti (dalla storia dell’arte alla divulgazione scientifica, dalle pratiche sportive alla medicina), si stanno facendo strada persone e gruppi che diffondono fake news, teorie del complotto, per non parlare del drammatico sdoganamento di stili di vita sbagliati e dell’esposizione di persone con disabilità.

Il palcoscenico virtuale sta diventando una sorta di Freaks permanente. C’è la ricerca morbosa del grottesco, dell’inumano, del patologico, e se prima questi elementi erano introvabili o comunque di difficile scoperta, adesso sono fin troppo presenti e la loro sovrabbondanza pone quesiti sull’etica (assente) di queste piattaforme. Il conflitto tra Israele e Palestina, e ancor prima l’ascesa di partiti di estrema destra in praticamente tutta Europa (situazione ben visibile nei risultati elettorali da qualche anno a questa parte) sta rendendo accettabile, tollerabile, anche la diffusione di odio razziale nei contenuti dei social media. Ad esempio, non è raro – se vediamo qualche video relativo al conflitto attuale in Medio Oriente – trovare commenti antisemiti raccapriccianti: fino a poco tempo fa sarebbe stato più difficile imbattersi in riflessioni così drammatiche. Il razzismo e l’antisemitismo sono realtà ben precedenti alla diffusione dei media e dei social network, ma si tratta di fenomeni che talvolta vivono silenziati, quasi nascosti, finché una categoria a rischio (in questo caso gli ebrei) non si trova nuovamente esposta.

Parallelamente all’odio diffuso da gruppi reali, da partiti politici, da fazioni religiose estremiste, c’è quello che si crea e si diffonde in rete, spinto dall’eccitazione generale per il conflitto verbale, per la gogna mediatica, per l’esaltazione del dramma. I social media diventano tribunali alternativi dove si creano fazioni e si decide cosa è giusto e cosa è sbagliato, chi fa bene e chi fa male.

Viviamo in un’epoca sbilanciata verso la guerra e verso l’odio, e soprattutto viviamo in un periodo così tanto diverso e così tanto veloce rispetto al passato dove è impensabile fare confronti tra noi e le fasi drammatiche dei decenni e dei secoli passati. La comunicazione – sia quella convenzionale, quindi giornalistica, oppure alternativa, come quella che ormai trova spazio nei social network – ha bisogno di ripensare i suoi metodi, i suoi approcci, le sue modalità di diffusione e di coinvolgimento. Da parte di chi riceve l’informazione serve la capacità di resistere alle distorsioni e alla semplicità con cui gli elementi comunicati possono apparire sospetti, non veri, infondati. Deve partire una riorganizzazione generale e completa dei contenuti social che si muova in una prospettiva etica: ed è proprio qui che si nasconde l’insidia più profonda di questo intervento. La comunicazione è per definizione libera, e questa libertà spetta ovviamente anche ai social media: se si permette la libera diffusione di un contenuto – che risulterà poi moralmente discutibile – allora c’è un serio problema.

Penso ad una ragazzina cinese, con evidenti problemi fisici e mentali, che viene filmata a sua insaputa e questi video (dove lei urla e aggredisce fisicamente le persone intorno) vengono prontamente diffusi su Instagram e Tiktok. Un contenuto del genere non dovrebbe circolare, invece riceve milioni di visualizzazioni e permette a migliaia di persone di commentare. Per carità, i video di questa ragazzina non sono certamente portatori di qualche informazione e quindi non possono nemmeno essere considerati come elementi comunicativi, ma si tratta pur sempre di contenuti che trovano diffusione e che diventano di dominio pubblico, allo stesso modo di un servizio sulla guerra russo-ucraina o un articolo sul Covid. Tutto ciò che dal singolo (un giornalista, un tiktoker, un attivista politico o religioso) viene trasmesso alla comunità (utenti di TikTok, persone che vedono il telegiornale o comprano un quotidiano) è frutto di un qualche processo comunicativo. Chi diffonde qualcosa comunica qualcosa. Questo è uno dei limiti della sovrabbondanza di strumenti comunicativi.

Essendo lo spazio di condivisione e diffusione incontrollabile, l’applicazione di regole di controllo etico e la governance dei media è una sfida complessa. Regolare i contenuti potrebbe significare andare contro il concetto stesso di medium: ogni limite imposto snatura l’essenza di questo prodotto umano. L’assenza di regole internazionali condivise consegna quindi la responsabilità al singolo Stato, che in alcuni casi può muoversi sulla via della censura e annullare quindi ogni traccia di libertà di comunicazione. Se c’è quindi una regolamentazione – scritta o meno – di internet e dei media, affidata alle singole realtà nazionali, manca un codice etico, una governance etica, non succube di modelli ideologico-culturali bensì aperta alla riscrittura di norme e codici che permettano un uso dei media consapevole, libero, moralmente accettabile e soprattutto che contempli il minimo rischio di problematiche legate ad estremismo, cospirazionismo e violazione dei diritti umani fondamentali.

Un buon risultato, almeno inizialmente, sarebbe quello di unire le responsabilità delle due parti coinvolte nella comunicazione: lo strumento (i media) e l’utente. Non c’è un produttore e un ricevente. Si devono coinvolgere i cittadini in un percorso di educazione ai media, che li possa orientare alla comprensione e all’analisi di fenomeni problematici come le fake news. Si deve riflettere sul rischio di possibili emulazioni di comportamenti e stili di vita sbagliati e soprattutto si deve intervenire laddove si diffonda odio e razzismo, perché dietro ad ogni commento – escluso tutto ciò che viene prodotto dall’Intelligenza artificiale – c’è una persona che oltre a condividere il palcoscenico invisibile dei social ha una vita e prende parte ai processi sociali.


di Enrico Laurito