venerdì 1 febbraio 2019
“Assisteremo alla morte della morte” ha detto a “El Mundo” Josè Luis Cordeiro, docente della Singularity University di California, fissando una possibile scadenza, il 2045. “I progressi della scienza ci daranno la possibilità di curare l’invecchiamento, causa principale della malattia, e anche di ringiovanirci. Si fa già a livello di cellule e tessuti, potremo farlo per tutto l’organismo”. E ha aggiunto: “Io non penso di morire, non rientra nei miei piani”.
Queste affermazioni sono state fatte nel corso di un recente congresso sulla longevità che si è svolto a Madrid, nel corso del quale anche Rodolfo Goya del National Scientific and Technical Research Council di Buenos Aires ha affermato: “Di recente è stato possibile indurre una riprogrammazione cellulare in un animale vivo, prolungandone la vita. Quindi non si tratta di sapere se si può, la domanda è quando”.
Certamente tali certezze suscitano un po’ di scetticismo, ma è innegabile che uno degli obiettivi della scienza è proprio quello di riuscire a sconfiggere l’invecchiamento umano e di conseguenza la morte. E se una delle linee di ricerca riguarda proprio quella di contrastare il più possibile l’invecchiamento cellulare attraverso le terapie geniche anti-invecchiamento o la sostituzione di arti e organi deteriorati con altri nuovi coltivati biologicamente in laboratorio, altro ramo di sicuro interesse riguarda il processo di ibernazione, tecnicamente detto “sospensione criogenica”.
Risale ormai a 52 anni fa il primo caso: si tratta di James Bedford, un professore di psicologia dell’università della California di 73 anni deceduto a suo tempo a causa di un cancro e ibernato ufficialmente il 12 gennaio 1967 attraverso una tecnica controversa che consiste nell’iniettare nelle vene una soluzione “crioprotettiva” indispensabile ad evitare che congelino tutti i tessuti e nell’immergere poi il corpo nell’azoto liquido ad una temperatura di -196 gradi entro mezz’ora dal decesso. Il corpo di Bedford è conservato presso la Alcor, in Arizona che, insieme ad un’altra azienda statunitense ed una russa, sono attualmente le uniche compagnie nel mondo che si occupano di questa tecnica.
Il costo per usufruire di questo servizio non è certo “economico”: la cifra si aggira attorno ai 200mila dollari per l’intero corpo, ma si può scendere fino a 80mila se si intende conservare sola la testa, e di conseguenza soprattutto il cervello, del deceduto. Fino ad oggi sono circa 350 gli esseri umani che sono “preservati” con questa tecnica, spinti dalla speranza che in futuro le nuove conoscenze permettano di “rinascere” e curare le malattie di cui soffrivano al momento dell’ibernazione; tempi che però, anche secondo le più rosee previsioni, non verranno prima di almeno cinquant’anni.
Singolaritanismo è invece il nome della dottrina informatico-filosofica che ritiene che in futuro l’intelligenza artificiale si fonderà e addirittura in alcuni casi sostituirà quella umana. Un suo convinto sostenitore è lo scienziato e futurologo Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, secondo il quale “entro il 2030 avremo ‘nanobot’ che viaggeranno nel corpo per curarci; verranno inseriti nel cervello in modo non invasivo attraverso i capillari. I nanobot nel sangue distruggeranno gli agenti patogeni, rimuoveranno i detriti, libereranno i nostri corpi da coaguli e tumori, correggeranno i difetti del Dna e invertiranno il processo di invecchiamento”.
Stando a queste previsioni, quindi, saremmo sempre più prossimi alla sconfitta della morte. Ma è biologicamente davvero necessario divenire immortali? Certo, ognuno di noi teme ed eviterebbe volentieri il momento del congedo da questa Terra. Ma una volta che venisse perso lo stimolo biologico, l’urgenza alla riproduzione e il limite temporale, potremmo immaginare che qualsiasi piacere terreno venga a noia e la vita perda di significato, condannandoci in un perenne, noioso presente.
di Chiara Gulienetti