giovedì 18 dicembre 2025
Le operazioni diplomatiche di Recep Tayyip Erdoğan sono chiaramente tese a porre la Turchia al centro dei negoziati internazionali, sia per la questione russo-ucraina che per quella legata a Israele e Hamas. Nonostante le problematiche interne al Paese e le azioni governative connesse che tendono a congelare orizzonti di cambiamento politico, Ankara è riuscita ad affermarsi come una nazione impegnata nella pacificazione sulla scena internazionale. Tale atteggiamento è favorito sia dalla posizione strategica del Paese, che dall’abilità del presidente Erdoğan di configurarsi come un interlocutore adatto a negoziare con chiunque, superando i limiti delle diverse posizioni politiche internazionali.
La politica estera di Erdoğan è decisamente adattabile agli stimoli geostrategici, e spesso finalizzata a scopi non immediatamente percepibili dai più, ma è evidente che anche nella diversità delle questioni che interessano varie aree geografiche, resta costante il fatto che Ankara si colloca al crocevia dei negoziati più cruciali. Così Erdoğan rappresenta spesso il punto di incontro di confronti che spaziano da Bruxelles a Washington, come da Mosca a Kiev, considerando anche la apparente facilità con cui interloquisce nel mondo islamico. In un periodo geopoliticamente complesso, l’autoritarismo espresso dal presidente turco è funzionale a una stabilità sugli impegni che sistematicamente vengono presi sui tavoli negoziali internazionali. Tanto è che durante un incontro tra Donald Trump ed Erdoğan, avvenuto il 25 settembre alla Casa Bianca, il presidente statunitense ha avuto note di apprezzamento verso l’omologo turco per la sua azione in Siria, definendola un successo.
Così, sulla linea del riconoscimento del ruolo di Erdoğan il 13 ottobre in Egitto a Sharm el-Sheikh, dove si è tenuto un incontro sulla questione Gaza e dove erano presenti le più influenti diplomazie della regione, Friedrich Merz, cancelliere tedesco, ha manifestato pubblicamente il suo apprezzamento verso Erdoğan, ringraziando la diplomazia turca per il ruolo svolto nella delicata questione. A fine novembre anche il presidente francese Emmanuel Macron ha voluto valorizzare il ruolo e l’impegno diplomatico della Turchia, inserendo i militari turchi in una task force congiunta con soldati francesi e britannici, da schierare, non si sa quando, in Ucraina al momento che si presenti la possibilità di un accordo di cessate il fuoco tra Mosca e Kiev.
Altro fattore da sottolineare con un enorme significato, anche simbolico, la visita il 27 novembre, in Turchia, di Papa Leone XIV che ha inaugurato le sue missioni all’estero proprio partendo da questo Paese. Il Papa ha esortato Erdoğan a prodigarsi per il riavvicinamento tra i popoli con l’obiettivo di favorire la pace. Una visita quella a Istanbul (Costantinopoli), che richiama la sconfitta della cristianità orientale da parte islamica del 29 maggio 1453. Forse il momento più drammatico del Cristianesimo, privato di una delle sue due teste. Ormai lontani e quasi dimenticati gli anni in cui la Turchia era considerata di scarso spessore diplomatico ed economico, tempi in cui la politica veniva sostenuta dal concetto “zero problemi con i vicini”, rivolto ai confinanti Stati islamici, coniato da Ahmet Davutoğlu allora ministro degli Esteri (2009). Ma le tensioni ai confini erano comunque elevate.
Oggi, assistiamo ad un convergente e spettacolare allineamento della diplomazia internazionale che colloca la Turchia tendenzialmente sulla linea pacificatrice piuttosto che sul tracciato di Stato guerrafondaio. Anche se è estremamente florida l’industria militare, soprattutto di matrice familiare, come quella dei droni Bayraktar. Quindi Erdoğan, terminato il paranoico isolazionismo internazionale vocato ad un espansionismo neo-ottomano, caratterizzato nel 2016 da un dubbio tentativo di colpo di Stato, adesso applica il metodo del soft power. Un Erdoğan che ostenta sicurezza e potere con mezzi diplomatici agili, che sono espressi nel concetto di “appeasement”, ovvero concedere per evitare conflitti. Il riferimento a Kiev è chiaro. Una Turchia geopoliticamente centrale, dove Erdoğan mette “ai ferri” il suo principale rivale a Istanbul, e che con nonchalance porta avanti una economia barcollante che sopravvive grazie all’Europa. Una Europa, o meglio una Unione europea, che, non paradossalmente, ritiene la Turchia indispensabile per i suoi stessi Stati membri.
di Fabio Marco Fabbri