La strategia per la sicurezza nazionale di Donald Trump

mercoledì 10 dicembre 2025


Nel documento strategico pubblicato di recente, l’amministrazione Trump afferma che l’Europa rischia la “cancellazione della civiltà”. È così anche per l’Europa centrale?

Il presidente Donald Trump, innegabilmente, ha un debole per i leader forti. Spesso si ha l’impressione che questo sia l’unico criterio che applica ai capi di Stato stranieri quando ne valuta lo status politico e l’utilità per gli obiettivi internazionali chiave dell’America, indipendentemente dal reale prestigio o dalle capacità diplomatiche di un particolare interlocutore.

Pertanto, il presidente argentino Javier Milei e quello salvadoregno Nayib Bukele ricevono un trattamento speciale dalla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti va d’accordo con Xi Jinping e Vladimir Putin. Allo stesso modo, anche Benjamin Netanyahu e Viktor Orbán possono contare sulla simpatia e la comprensione di Donald Trump. Ahmed al-Sharaa, il nuovo leader siriano ed ex terrorista, è stato ricevuto alla Casa Bianca poche settimane fa, ricoperto di elogi e definito un “tipo duro”. Persino Kim Jong-un, il tiranno nordcoreano, è stato ricompensato con alcuni commenti calorosi da parte dello stesso Trump: “Ho avuto un ottimo rapporto con Kim”.

Spostiamo ora l’attenzione sull’Europa: ci sono uomini forti e leader inflessibili, oltre al già citato primo ministro ungherese? Ursula von der Leyen e Kaja Kallas non soddisfano certamente i criteri. Emmanuel Macron in Francia? Beh, è solo un “bravo ragazzo”. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz? Non necessariamente. La premier italiana Giorgia Meloni è quella che più si avvicina a questa percezione, ma probabilmente non è abbastanza autoritaria per i gusti di Trump. Il presidente finlandese Alexander Stubb è stato di recente al centro dell’attenzione dei media come l’unico politico europeo in grado di capire la personalità del presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, è solo “un altro bravo ragazzo” e anche un ottimo golfista.

Paradossalmente, questo è uno dei motivi per cui le relazioni transatlantiche si sono deteriorate in modo così drastico durante il secondo mandato presidenziale di Trump. L’attuale amministrazione statunitense considera generalmente l’Europa debole e paralizzata. In declino sia dal punto di vista economico che sociale, incapace di affrontare i problemi strutturali più urgenti. Il Vecchio Continente sta perdendo irrimediabilmente la guerra contro l’immigrazione clandestina (a differenza dell’America) e rimanendo indietro nella corsa tecnologica (contrariamente all’America). L’Europa è incapace di difendersi militarmente, figuriamoci difendere l’Ucraina. L’Europa sta letteralmente morendo, a causa della sua incapacità di affrontare le tendenze demografiche avverse.

Tutti questi fenomeni preoccupanti rendono il Vecchio Continente molto meno attrattivo per gli interessi globali degli Stati Uniti. L’Europa ha compiuto un percorso che l’ha portata dall’essere un alleato indispensabile a diventare debole e sacrificabile. Il capitolo dedicato all’Europa nella Strategia per la Sicurezza nazionale, il documento di recente presentato dall’amministrazione Trump, non lascia molto spazio ai dubbi: “I funzionari americani si sono abituati a pensare ai problemi europei in termini di spesa militare insufficiente e stagnazione economica. C’è del vero in questo, ma i veri problemi dell’Europa sono ancora più profondi. Ma questo declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più grave della scomparsa della civiltà. Le questioni più importanti che l’Europa deve affrontare includono le attività dell’Unione europea e altri organismi transnazionali che minano la libertà politica e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di espressione e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita delle identità nazionali e della fiducia in se stessi”.

Questa immagine cruda è decisamente esagerata. Tuttavia, non è del tutto falsa. L’Europa è immersa in una serie di crisi, manca di visione ed è consumata dalla mania del politicamente corretto. Il contrasto tra il protagonismo dell’Europa e la sua reale influenza sulla scena internazionale è sconcertante. Non c’è da stupirsi che i leader europei stiano ora svolgendo un ruolo marginale nei negoziati di pace sul futuro dell’Ucraina. Non sorprende che siano i “duri”, e non i “bravi ragazzi”, ad avere l’attenzione del presidente Trump e a godere della sua fiducia. Ci sono diversi ambiti in cui il divario ideologico tra Stati Uniti ed Europa è diventato ancora più palpabile. Il presidente americano e i suoi sostenitori descrivono l’America di oggi come una salvatrice del cristianesimo, in una lotta apparentemente biblica contro il wokismo e il globalismo. In questo scontro, i conservatori americani vedono l’Europa liberale come un avversario piuttosto che come un partner. Se non addirittura come una minaccia esplicita alla civiltà occidentale. A questo proposito, persino la Russia sembra essere più in linea con i cosiddetti valori Maga. Agli occhi di molti repubblicani radicali, l’unica salvezza per l’Europa risiede nell’ascesa dei partiti di destra in Francia, Germania o Spagna: rispettivamente Rassemblement National, Alternative für Deutschland e Vox.

Il cambiamento climatico è diventato un’altra questione spinosa. Diversi alti funzionari statunitensi hanno di recente messo in dubbio la veridicità o almeno l’accuratezza dei dati scientifici al riguardo. Ciò che la maggior parte dei decisori politici europei considera un percorso inevitabile verso un’energia più pulita è un anatema per i loro omologhi d’oltreoceano. Il “Green deal” si scontra con il “Drill, baby, drill” (lo slogan che esorta a trivellare di più, ndt.) in una resa dei conti senza esclusione di colpi. Allo stesso modo, l’approccio americano al diritto internazionale differisce da quello europeo. Interpellato il mese scorso sulle operazioni militari statunitensi contro i narcotrafficanti nei Caraibi, il segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato: “Non credo che l’Unione europea possa stabilire cos’è il diritto internazionale. Di certo, non spetta a loro stabilire come gli Stati Uniti difendono la propria sicurezza nazionale”.

In questo contesto, è significativo il modo in cui l’amministrazione statunitense sta prendendo le distanze dall’Onu, con quanta severità sanziona i giudici della Corte penale internazionale dell’Aja e con quanto opportunismo chiude un occhio sulla brutalità dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. La “difesa della sicurezza nazionale”, come ha sintetizzato Marco Rubio, prevale su ogni dubbio giuridico e può essere utilizzata come utile argomento in qualsiasi circostanza. Ultimo ma non meno importante, un altro fattore di divisione è rappresentato dai rispettivi atteggiamenti di America ed Europa nei confronti dell’influenza in continua espansione dell’Intelligenza artificiale. Per le aziende statunitensi si tratta di un’opportunità e di una nuova frontiera da superare. Al contrario, per la maggior parte delle società europee rappresenta una minaccia. “Forse perderemo alcuni posti di lavoro, ma ne creeremo molti di più”, affermano gli americani. Gli europei non ne sono così certi e dicono: “Forse creeremo alcuni posti di lavoro, ma ne perderemo molti altri”.

Quindi, in sintesi, questo è il modo in cui l’attuale amministrazione statunitense percepisce l’Europa: debole, inebriata dal politicamente corretto, ambigua su questioni cruciali e tecnologicamente arretrata. Dunque, considera anche l’Europa centrale debole e sacrificabile? È interessante notare che, ancora oggi, la stragrande maggioranza degli americani identifica l’Europa con la sua parte occidentale. Non si tratta nemmeno di Europa occidentale contro Europa orientale. Si tratta piuttosto di un’Europa contro un amalgama di Paesi e popoli post-sovietici. La cortina di ferro è crollata 35 anni fa, ma è ancora radicata nella mentalità di molti occidentali, siano essi americani, francesi, britannici o tedeschi. Tuttavia, per quanto deprimente possa sembrare, è al contempo una maledizione e una benedizione. Ed è anche un’occasione per tornare alla famosa distinzione tra “Vecchia Europa” e “Nuova Europa”, usata ripetutamente e con entusiasmo da Donald Rumsfeld e altri neoconservatori americani vent’anni fa. Forse, con una piccola modifica, “Vecchia Europa” contro “Giovane Europa” sarebbe una descrizione più appropriata.

Questo è probabilmente il dilemma più angosciante che i governi dell’Europa centrale si trovano ad affrontare in questo momento. In che misura dovremmo comunicare con l’America di Trump come “europei”, consapevoli che questa definizione non suscita emozioni positive alla Casa Bianca? In che misura dovremmo comportarci da “duri” dell’Est, piuttosto che da “bravi ragazzi” di Parigi o Helsinki, pur essendo ben consapevoli che una tale prospettiva potrebbe potenzialmente avvelenare i nostri rapporti con le principali capitali europee? Sono pochi i Paesi e ancora meno i leader europei in grado di colmare questo divario, coltivando costantemente e parallelamente ottimi rapporti con Washington, Berlino e Bruxelles. La Polonia è uno di questi, con un presidente fermamente filoamericano e un primo ministro ardentemente filoeuropeo.

Purtroppo, la natura profondamente faziosa della politica interna non consente ai politici polacchi di essere allo stesso tempo filoeuropei e filoamericani, uno schema familiare negli anni Novanta in tutto lo spettro politico. Al contrario, le fazioni pro-Trump e anti-Trump stanno ora dominando il dibattito pubblico a Varsavia. Verosimilmente, ed evocando un parallelismo con il Medio Oriente, è una regola empirica: non perdiamo mai l’occasione di perdere un’occasione.

(*) Tratto da The National Interest

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Marek Magierowski (*)