Iran, nucleare e cinema le crepe del potere

venerdì 5 dicembre 2025


In Iran il governo degli Ayatollah, dopo l’annichilimento della sua struttura paramilitare organizzata per aggredire Israele, ovvero “l’Asse della resistenza”, composta da Houthi yemeniti, milizie sciite irachene e siriane, Hezbollah libanese, Hamas, ma soprattutto la Siria, ganglio strategico del “sistema”, e dopo essersi dissolta la “mezza luna sciita”, accelerata dal colpo di Stato in Siria, composta dagli stessi “anelli” esclusa l’organizzazione politico-militare di Hamas perché sunnita, sta attraversando un periodo quantomeno di disorientamento.

In questa fase di perdita di orientamento politico e geopolitico il governo iraniano ha ufficialmente riesumato la Francia, nazione che aveva accolto l’ayatollah Ruhollah Khomeini a Parigi solo un anno prima (fu espulso dall’Iraq nel 1978) della rivoluzione iraniana (1979). Così il 1 febbraio 1979, dopo 15 anni di esilio (1964), a bordo del Boeing 747 dell’Air France, il torvo imam fu accompagnato con assoluto rispetto e considerazione a Teheran. Lo sbarco di Khomeini nella capitale iraniana suggellò, oltre la fine di un regime tendenzialmente laico, guidato dello scià Reza Shah Pahlavi, ed il successo della Rivoluzione iraniana, che fece regredire il Paese, anche la “sinistra” intesa tra la Francia e la Repubblica islamica iraniana (nata il 1 aprile 1979).

Ora il governo iraniano ha espresso grande considerazione per la Francia, considerandola un partner con una affidabilità maggiore di quella degli Stati Uniti sul piano dei negoziati sul nucleare. Così, giovedì 27 novembre l’ottantaseienne Ali Khamenei, Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, durante la solita nenia pronunciata sulla televisione di stato, Canale1, ha sostenuto che il governo di Donald Trump non è degno di negoziare e collaborare con il governo iraniano. In questo contesto ha rinnegato quanto trapelato da varie fonti diplomatiche, anche dalla pseudo diplomazia iraniana – fattore che evidenzia uno smarrimento politico profondo – circa una recente lettera scritta dal presidente iraniano Massoud Pezeshkian, nella quale si sarebbe aperto ad un dialogo con la diplomazia statunitense. Ricordo che le voci che riferivano di questa missiva diretta a Trump, erano supportate anche da dichiarazioni di Pezeshkian sulla necessita di avviare costruttivi canali di comunicazione con gli Usa.

Infatti, prima che Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita, partisse, il 17 novembre, per Washington, Massoud Pezeshkian aveva consegnato questa nota al ministro degli Interni saudita, Abd al-Azīz bin Saʿūd Āl Saʿūd. Tale notizia è stata riportata anche da molti media iraniani i quali hanno rivelato il contenuto, che consiste in una richiesta di riprendere i negoziati sul programma nucleare iraniano, e che bin Salman l’avrebbe direttamente consegnata al presidente statunitense. Quindi il governo degli Ayatollah avrebbe grande fiducia sia nella diplomazia saudita – vista la loro storia probabilmente fiducia mal riposta – sia in quella francese, con la quale la settimana scorsa, a Parigi, ha avuto un vertice. Proprio il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghtchi, che già aveva incontrato al Cairo, a settembre, il direttore generale dell’Aiea, Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha avuto un colloquio con Jean-Noël Barrot omologo transalpino, confermando la grande intesa tra le due diplomazie, e che la Francia potrebbe favorire il proseguo del programma nucleare di Teheran.

Tuttavia, se bastasse la cronica pantomima tra il nucleare civile e militare per sperare in uno stabile futuro, internamente la mina vacante è il “cinema”. Così la cinematografia iraniana sta vivendo un periodorivoluzionario” dove l’indipendenza nella produzione cinematografica insidia anche la finta stabilità politica del Paese. Difatti con il motto “donna, vita, libertà” molte sovrastrutture oscurantiste stanno crollando. In realtà, dopo l’uccisione di Mahsa Amini nel settembre 2022 – prima arrestata perché non indossava il velo in modo “islamico” – da parte degli aguzzini della “polizia morale” e collaboratori, spinti dal movimento popolare nato da questo assassinio, molti registi azzardano girare film ignorando le direttive degli ayatollah. Così superando le barriere imposte dal regime, sempre più registi producono film, che distribuiscono clandestinamente, mostrando il vero volto della società iraniana. Considerando che la cinematografia è un esclusivo affare di Stato, e ogni produzione cinematografica, in teoria, deve passare la censura dei “cecchini della libertà”, ovvero gli inquietanti dirigenti del Ministero della Cultura e dell’Orientamento islamico, oltre altri organi subordinati, questa ribellione assume un significato socialmente cruciale.

In questi film vengono mostrate donne che camminano per strada a capo scoperto, immagine fino a poco tempo fa inimmaginabile nel cinema iraniano. Così svariate attrici con notevole notorietà, hanno seguito l’esempio delle donne ribelli che allo chador o al hijab preferiscono vestiti non islamici e capelli al vento. Ora sempre più spesso donne di ogni età scelgono di uscire per le strade di Teheran e di altre grandi città, non indossando paramenti islamici, quindi con abbigliamenti anche alla “occidentale”, che comunque sono acquistabili nei negozi e nei mercati, sfidando la legge che impone loro di coprire tutto il corpo tranne mani e viso. Tra queste famose attrici che si stanno ribellando al regime ricordo Taraneh Alidoosti, protagonista del film Leila and Her Brothers, uscito nel 2022, che ha pubblicato su Instagram foto che la ritraggono senza hijab; un azione che ha portato al suo arresto e all’interdizione di continuare a recitare.

Ma un altro colpo al regime degli ayatollah è stato inferto dal regista iraniano Jafar Panahi, vincitore a maggio scorso della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2025, con il film A Simple Accident. Panahi regista di fama internazionale è un rappresentante di spicco del movimento cinematografico nouvelle vague iraniana. Anche se Panahi è stato condannato in contumacia dal regime iraniano, essendo riuscito ad uscire dall’Iran dopo 15 anni, altri registi hanno deciso di rifiutare gli obblighi imposti dalle autorità. La loro battaglia per la libertà la manifestano non sottoponendo più le loro sceneggiature alla censura. Tale struttura è incaricata di decidere se i messaggi che lanciano i film, ovvero i costumi, il linguaggio, o i rapporti tra i generi, rispettino i dettami islamici. Inoltre scrivono sceneggiature, producono e distribuiscono filmografia senza chiedere più i molteplici permessi necessari. In pratica la tendenza sempre in aumento da parte della cultura cinematografica e letteraria iraniana è quella di manifestare secondo i propri valori in un sistema che impone il giogo.

Un atteggiamento, quello dei registi iraniani, che sulla linea di “donna, vita, libertà”, segna una enorme crepa nel controllo, da parte del regime, sulla società iraniana; oltre al fallimento del programma nucleare, due elementi che insieme contribuiscono a colpire le fondamenta ormai sgretolate del potere degli ayatollah.


di Fabio Marco Fabbri