Cosa vuol dire pace giusta?

giovedì 4 dicembre 2025


Che cosa significa davvero parlare di pace giusta di fronte a una guerra di aggressione come quella scatenata dalla Russia contro l’Ucraina? L’espressione, sempre più presente nel dibattito internazionale, rischia di diventare un guscio vuoto se non viene riempita di contenuti concreti: responsabilità, verità, tutela delle vittime, garanzie di sicurezza futura. Una pace che ignori i crimini commessi o che offra impunità agli aggressori non è una soluzione, ma una resa travestita da compromesso. Nel caso dell’Ucraina, la questione non è solo porre fine ai combattimenti, ma costruire un accordo che non legittimi la violenza né incoraggi nuove aggressioni. È da questa consapevolezza che occorre partire per definire cosa significhi, oggi, una pace realmente giusta. Il recente film hollywoodiano Norimberga ha riportato alla luce il ruolo tutt’altro che limpido svolto dall’Unione Sovietica nella creazione del Tribunale militare internazionale incaricato di processare i dirigenti del Terzo Reich dopo la Seconda guerra mondiale. Quei gerarchi nazisti ebbero finalmente il processo che i loro crimini meritavano, ma per Iosif Stalin – protagonista dei processi farsa degli anni Trenta e responsabile di un sistema repressivo di massa – il tribunale non rappresentava un autentico impegno verso lo stato di diritto.

Ai suoi occhi rappresentava soprattutto un’occasione politica da sfruttare, mentre l’Unione Sovietica restava ben lontana dall’assumersi responsabilità per le proprie atrocità. L’atteggiamento del Cremlino non è cambiato molto dai tempi del regime sovietico. Vladimir Putin, alla guida di un apparato che colpisce regolarmente gli oppositori con accuse politicamente motivate, mostra totale disprezzo per il diritto internazionale e pone in essere ogni sforzo per ostacolare ogni iniziativa volta alla creazione di un Tribunale speciale sul crimine di aggressione e per delegittimare le indagini della Corte penale internazionale dell’Aia. È la prosecuzione diretta della tradizione sovietica di negare, distorcere e manipolare la realtà pur di evitare ogni forma di accountability. In questo contesto, una delle proposte più discusse del piano di pace in 28 punti avanzato dal presidente statunitense Donald Trump riguardava un’amnistia totale per tutte le parti coinvolte nella guerra. Pur successivamente modificata, l’idea è stata percepita in Ucraina come un pericoloso segnale di indulgenza nei confronti della Russia, che avrebbe così potuto sottrarsi alle conseguenze dei propri crimini. L’indignazione è esplosa soprattutto perché la proposta è stata resa pubblica pochi giorni dopo un devastante attacco missilistico russo contro un edificio residenziale a Ternopil, dove più di trenta civili – tra cui sette bambini – sono stati uccisi. Quel tragico episodio è divenuto il simbolo dell’assurdità di offrire impunità a chi continua a colpire deliberatamente la popolazione ucraina. Molti osservatori hanno sottolineato come rinunciare al perseguimento dei crimini di guerra in Ucraina avrebbe conseguenze devastanti per la sicurezza internazionale.

La giurista e premio Nobel ucraina Oleksandra Matviichuk ha avvertito che una simile scelta “svuoterebbe il diritto internazionale e incoraggerebbe altri leader autoritari a pensare che si possa invadere un Paese, uccidere civili e cancellarne l’identità, ottenendo perfino nuovi territori”. È una previsione tutt’altro che remota, soprattutto alla luce della lunga storia sovietica e russa di aggressioni mai seguite da una reale assunzione di responsabilità. Se Norimberga ha rappresentato un momento cruciale per affermare il principio della responsabilità internazionale, la società russa non ha mai attraversato un processo comparabile. L’Unione Sovietica non ha mai pagato per l’invasione dell’Ungheria nel 1956, per la repressione della Primavera di Praga nel 1968 o per l’intervento in Afghanistan. Allo stesso modo, la Russia post-sovietica non ha affrontato una riflessione seria né un giudizio sui crimini commessi nelle guerre cecene, nell’invasione della Georgia nel 2008 o durante la prima aggressione all’Ucraina nel 2014. Questa assenza storica di responsabilità ha alimentato un senso di impunità profondamente radicato, trasformato oggi in uno strumento politico essenziale per il Cremlino.

Tra chi appoggia il piano di pace statunitense c’è chi afferma che la priorità debba essere fermare le ostilità, non perseguire la giustizia. Tuttavia, pace e giustizia – soprattutto nel caso della Russia – debbono restare un binomio inscindibile. Pretendere che un regime che ha costruito la propria forza sull’impunità rispetti in futuro trattati o accordi internazionali senza essere chiamato a rispondere dei crimini commessi significa ignorare la storia recente e remota di Mosca. Alcuni punti del piano statunitense possono certamente costituire una base per un futuro percorso negoziale. Tuttavia, l’idea di un’amnistia generalizzata rischia di rafforzare ulteriormente il Cremlino, che ha sempre interpretato ogni gesto di conciliazione come un segno di debolezza. Nulla suggerisce che la Russia, se lasciata impunita, rinuncerebbe alle proprie ambizioni imperiali: al contrario, una simile concessione potrebbe incoraggiarla ad ampliare la propria aggressività verso i Paesi baltici, il Caucaso meridionale o l’Asia centrale. Sarebbe un esito disastroso non solo per l’Ucraina, ma per la comunità internazionale. Per queste ragioni è essenziale continuare a indagare su tutti i crimini commessi in Ucraina, documentare ogni violazione, sostenere le vittime e riaffermare il valore irrinunciabile della responsabilità. Norimberga non ha eliminato definitivamente le guerre di aggressione, ma ha stabilito un precedente fondamentale: chi attacca, devasta e uccide deve rispondere delle proprie azioni. Rinunciare oggi a questo principio – soprattutto nei confronti della Russia – equivarrebbe ad accettare un mondo più instabile e più pericoloso, in cui l’impunità tornerebbe a essere una moneta politica legittima, proprio come ai tempi dell’Unione Sovietica.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza


di Renato Caputo (*)