venerdì 28 novembre 2025
Poco tempo fa, in una Washington velata da un autunno tiepido, si sono svolti i funerali di Dick Cheney, esattamente il 20 novembre, alla presenza di Joe Biden, Kamala Harris, Mike Pence e George W. Bush, a testimonianza di quanto la sua figura abbia attraversato e segnato generazioni di potere americano. Il feretro, accolto in un silenzio rispettoso e quasi sospeso, sembrava evocare un’epoca ormai lontana, quando gli Stati Uniti vivevano sotto il peso delle tensioni globali ma anche sotto la guida decisa di uomini che non temevano la responsabilità di scelte estreme. Cheney era arrivato ai vertici del potere non per caso, ma attraverso una lunga e complessa carriera politica che iniziò negli anni Settanta. Già allora, giovanissimo, si muoveva nei corridoi della Casa Bianca come assistente e poi capo di Gabinetto sotto Gerald Ford, affinando ciò che sarebbe diventato il suo tratto distintivo: una profonda conoscenza delle dinamiche interne del potere esecutivo e un’abilità quasi chirurgica nel manovrarne i meccanismi.
Successivamente, come membro della Camera dei rappresentanti, consolidò la sua reputazione di pragmatico conservatore, serio, poco incline alla teatralità ma attentissimo ai dossier di sicurezza nazionale. Da segretario alla Difesa sotto George H. W. Bush, durante la prima guerra del Golfo, contribuì a modellare la risposta americana all’Iraq di Saddam Hussein, rafforzando la percezione di un uomo che sapeva affrontare le crisi con freddezza e rigore. Ripensare agli Stati Uniti ai tempi di Cheney significa tornare agli anni in cui l’ombra del vicepresidente, spesso descritta come più influente della figura stessa del presidente, si allungava sulle decisioni cruciali della Casa Bianca. George W. Bush era il volto pubblico dell’amministrazione, ma molti guardavano con attenzione a quel consigliere silenzioso, metodico, imperturbabile, capace di far avanzare la sua volontà con una determinazione che incuteva rispetto e timore. Cheney incarnò una forma unica di potere: discreto ma ferreo, lontano dai riflettori e vicino ai dossier che decidevano la direzione del mondo. C’era, allora, una certa sicurezza nel modo in cui l’America si muoveva sulla scena internazionale.
Le tragedie dell’11 settembre 2001 avevano scavato nel Paese un solco profondo, e in quella ferita si era fatta strada la volontà di reagire con forza, quasi con ferocia. La “guerra al terrorismo” fu il campo dove l’impronta cheneyana si fece più evidente: l’intervento in Afghanistan, concepito come una risposta immediata e inevitabile; l’invasione dell’Iraq, sostenuta con convinzione e presentata come atto necessario per prevenire minacce ancora più grandi. Sono scelte oggi contestate, discusse, reinterpretate, ma all’epoca apparivano, almeno a una parte del Paese, come il gesto risoluto di una nazione che rifiutava la paura. Eppure, nelle pieghe di quella fermezza si nascondevano anche zone d’ombra che il tempo non ha cancellato.
Guantánamo Bay, con le sue celle isolate dal mondo, i suoi interrogatori duri, le procedure sospese tra legalità e necessità, divenne il simbolo di un’America pronta a superare i propri stessi confini morali in nome della sicurezza. Cheney difese sempre quelle pratiche come strumenti indispensabili, e lo fece con la stessa convinzione con cui aveva spinto per gli interventi militari: con un pragmatismo severo, a tratti spietato, che ancora oggi divide osservatori e cittadini. Guardando indietro, è difficile non provare un senso di ambivalente nostalgia. Non perché quegli anni fossero più semplici o migliori, non lo erano, ma perché erano anni in cui gli Stati Uniti apparivano capaci di muoversi con una certezza che oggi sembra irripetibile. Cheney rappresentava proprio quell’America: un Paese che, di fronte all’incertezza, preferiva il pugno chiuso alla mano tesa; un Paese che, pur rischiando molto, mostrava una sorprendente coerenza con la propria idea di forza.
Ora che di lui resta il ricordo e una lunga scia di decisioni controverse, gli Stati Uniti si confrontano con un’eredità che non si può liquidare né con la condanna né con l’elogio. Forse è proprio in questo che risiede la grandezza, e la scomodità, di Dick Cheney: nel fatto che la sua figura continua a interrogare la coscienza nazionale, a far discutere, a far riflettere su ciò che un Paese è disposto a fare per sentirsi al sicuro. E mentre le note solenni del suo funerale svaniscono nella memoria collettiva, resta l’immagine di un uomo che, in un’epoca turbolenta, esercitò il potere con una determinazione rara, difficile da imitare e impossibile da ignorare.
di Michele Bandini