lunedì 24 novembre 2025
Stavolta, a Volodymyr Zelensky servirà davvero un passaggio per la sua fuga all’estero verso un esilio dignitoso, dato che le armi e l’intelligence americane non saranno più disponibili per lui, nel caso rimettesse seriamente in discussione i 28 punti del piano di pace (decisamente disonorevole per il suo Paese) proposto da Donald Trump. Ma, il presidente ucraino aveva già fatto dei passi falsi in occasione del primo incontro (per lui fatale) del 28 febbraio 2025 alla Casa Bianca, non essendosi in tutta evidenza minimamente documentato sul monumentale Project 2025 di Maga, che metteva in risalto l’approccio transazionale (tipo: “Tu dai due cose a me e io, forse, ne do una a te”) che la nuova Amministrazione americana avrebbe adottato nella gestione futura degli affari e dei rapporti internazionali. Averlo ignorato ha significato per il presidente ucraino scontrarsi con il comportamento scortese e urticante di Trump nei suoi confronti, le cui immagini sono poi state trasmesse e replicate un’infinità di volte sui media mondiali. Quelle famose “carte”, da mettere sul tavolo delle trattative con Vladimir Putin, Zelensky le avrebbe potute ottenere sottoscrivendo in via preliminare un patto d’azione comune tra i partner europei e l’Ucraina stessa, da presentare poi all’incontro con Trump. Il che avrebbe contribuito non poco, tra l’altro, a riportare l’Europa al centro dei futuri accordi di pace russo-ucraini. Dopo di che, sul piano interno, c’è stato un primo devastante tentativo da parte di Zelensky di mettere a tacere l’autorità ucraina anticorruzione (Nabu) con un’improvvida legge che ne eliminava l’indipendenza, poi ritirata a furor di popolo dopo dure proteste di piazza. Rimosso il bavaglio alla Nabu, è emerso il recente scandalo culminato con la dimissione di due ministri, Svitlana Hrinchuk (ministro per l’Energia) e Herman Halushchenko (ministro della Giustizia), molto vicini al presidente ucraino stesso, rei di aver riscosso centinaia di milioni di dollari di tangenti da Energoatom, la compagnia di Stato per l’energia nucleare.
Addirittura, voci non verificate suggeriscono che parte di quei fondi neri siano finiti in Russia. È certo, tuttavia, che i servizi di Mosca abbiano svolto la parte del leone nel fare affiorare i crimini ministeriali di corruzione sistemica, particolarmente invisi a tutta la popolazione ucraina, che soffre le gravi privazioni di beni e servizi essenziali causati dalla guerra. E malgrado tutto ciò, a seguito della perquisizione nella villa di un uomo d’affari, Timur Mindich, anche lui molto vicino a Zelensky e uno dei principali responsabili del sistema di dazioni ambientali, divenuto (guarda caso) uccel di bosco qualche giorno prima dell’irruzione, gli agenti dell’anticorruzione hanno scoperto in casa sua un “wc” in oro massiccio. A questo punto, è chiaro che l’ampiezza dello scandalo non potrà che incentivare le diserzioni e aumentare il senso di sfiducia nella popolazione assediata, mentre la perdita di immagine all’estero di Kiev rischia di rendere più problematico il finanziamento di 100 miliardi all’anno, di cui l’Ucraina ha disperatamente bisogno per dare un sostegno alle vittime civili dei bombardamenti, e per mantenere a un livello minimo di efficienza i suoi apparati dello Stato. Siccome questo genere di guai non vengono mai da soli, alla perdita di immagine e di credibilità del Governo ucraino si aggiunge lo sconcerto del recente piano americano in 28 punti, che rappresenta in pratica una capitolazione di fronte alle richieste di Mosca, e rischia di mettere seriamente fuori gioco i maggiori sostenitori europei di Zelensky, come Francia, Inghilterra e Germania. Questi ultimi, infatti, malgrado da tempo paghino i conti della guerra, si vedono ignorati dal piano di pace di Trump, concordato dall’immobiliarista Steve Witkoff per gli Usa e dall’oligarca Kirill Dmitriev per la Russia, all’insaputa di Kiev e della stessa Europa che, a questo punto, diventa sempre più irrilevante negli equilibri mondiali.
Chi ha potuto vedere più da vicino il piano Witkoff-Dmitriev (il cui gost-writer sembra proprio essere lo stesso Vladimir Putin) ne ha riferito i punti salienti, sintetizzabili come segue. In base alla bozza di accordo, l’Ucraina dovrebbe accettare di: ridurre del 60 per cento il proprio contingente militare; cedere più territorio di quello oggi occupato dai russi; rinunciare ad alcune classi di armamenti più sofisticati, inclusi quelli a lungo raggio in grado di raggiungere Mosca; interdire lo stazionamento di truppe straniere sul suo territorio (ovvero, niente contingenti di peacekeeping di Paesi Nato a garanzia della tregua); introdurre il russo come seconda lingua obbligatoria; ripristinare la dipendenza da Mosca della Chiesa Ortodossa Ucraina, diventata indipendente a maggio 2022, per impedire l’azione di propaganda filorussa. Ovviamente, l’Ucraina ritiene queste proposte irricevibili e lo stesso Dipartimento di Stato ha declinato l’invito a fornire spiegazioni in merito, il che la dice lunga sull’irritazione di Marco Rubio, tagliato fuori dalla mediazione affidata direttamente da Trump al fedelissimo Steve Witkoff. Del resto, è stato quest’ultimo, durante il suo incontro a Miami con il responsabile del Consiglio di sicurezza ucraino, Rustem Umerov, a mettere gli ucraini al corrente del piano, i cui margini di manovra per Kiev sono giudicati piuttosto ristretti, sia nei tempi di accettazione della proposta, che nelle richieste di modifica dei contenuti. Così gli europei, senza parlare mai con Putin, hanno allestito un pronto soccorso diplomatico per l’Ucraina, cercando di suturare le ferite inferte da Trump all’orgoglio nazionale ucraino: ma, forse, troppo tardi e invano.
Chiaramente, il piano promosso da Washington sembra scritto con le ambizioni e l’inchiostro rosso di Mosca, il che va benissimo per un Trump che si è messo in testa il Nobel per la pace (pur “maledetta e subito”, come direbbero gli autori classici), ma che di sicuro non può andare bene al popolo ucraino, che ha visto morire sui campi di battaglia centinaia di migliaia dei suoi figli, oltre ad assistere alla distruzione di tante sue città dilaniate da migliaia di tonnellate di bombe russe. Da tutto ciò, soprattutto dalla res nullius che oggi l’Europa rappresenta, ne viene fuori come gli stessi “Volenterosi” non possano svolgere altro ruolo oltre a quello di ufficiali pagatori di una guerra che non hanno voluto, ma che stanno perdendo assieme al loro protégé Volodymyr Zelensky. E questo, in fondo, è il duro prezzo da pagare per aver esitato a ogni fornitura di nuove armi a Kiev, nel timore di essere trascinati in uno scontro diretto con la Russia, che ha fatto di tutto (riuscendoci, infine, con l’elezione di Trump) a spezzare in due la spina dorsale dell’Occidente. E così alla fine è avvenuto, con il distacco della sua componente debole e disarmata (ovvero, l’Europa), da quella forte di un’America che intende occuparsi innanzitutto di se stessa, preparandosi a quello scontro inevitabile nel Pacifico con il gigante asiatico, divenuto troppo invadente e potente. Il mondo intero deve rendersi conto che, anche grazie al nostro irenismo ottuso di chi crede che il mondo del diritto non abbia necessità della Forza per essere difeso, stiamo scivolando in modo sempre più accelerato verso la Trappola di Tucidite, dello sconto finale tra Sparta e Atene. Non fiori, dunque, ma opere di bene sulla bara di Bruxelles (e del multilateralismo onusiano).
di Maurizio Guaitoli