mercoledì 12 novembre 2025
Come con i cervi al tempo dell’amore, risuonano nelle valli silenti della politica europea le incornate di Usa e Cina in merito alla futura supremazia nel mondo. Ma, nel frattempo, del tutto inosservato, il più che pragmatico popolo giallo degli Han confuciani ha messo in scena da anni la sua Opera cinese, associandola alla tecnica millenaria del Teatro delle ombre, per operare nel silenzio della giungla finanziaria globale le sue rivoluzioni silenti, dove i flussi di denaro si mescolano ai megaprogetti della R&B (Road and Belt Initiative) e ai ribaltamenti planetari di alleanze. Per venire al sodo: il polmone economico-finanziario di Hong Kong (restituito alla Cina da più di 15 anni), accusato dai media occidentali di sottomissione alla logica centralizzata del capital comunismo voluta da Pechino, tradendo così i valori liberal anglosassoni e la sua Common law, si è dimostrato tutt’altro che un soggetto passivo. Negli anni, infatti, gli gnomi cinesi della Borsa di Hong Kong hanno compiuto veri miracoli, creando un sorprendente ponte di denaro con i Paesi musulmani del Golfo e con altri attori interessati del Global South, che partecipano alle iniziative cinesi della R&B. Le autorità dell’Isola, infatti, hanno emesso i così detti islamic bonds, e creato avanzati servizi legali e finanziari per la consulenza giuridica ai Paesi coinvolti nei grandi progetti transcontinentali della R&B, in cui si evidenzia la netta proiezione dell’imprenditoria cinese a fare lauti affari nel Golfo con i ricchissimi investitori arabi.
Ad ottobre, sotto l’autorevole patrocinio del vice ministro degli esteri cinese, è stato inaugurato un organismo di cooperazione internazionale, denominato International Organisation for Mediation (Iom), con il compito di risolvere i contenziosi contrattuali insorti sia tra governi che fra aziende private, facendo ricorso all’arte tutta cinese del dialogo e della coesistenza armonica. Parole fiorite che stanno per: “Ognuno è padrone a casa sua”, nel senso che a Pechino interessano gli affari e gli accordi concreti, anziché le dispute sui diritti umani eventualmente violati dai Paesi interlocutori. Tanto è vero che, secondo quando pubblicato dal settimanale della City The Economist, del nuovo organismo hanno deciso già di far parte Kenya, Nicaragua, Pakistan e Venezuela. Per ribadire tale concetto, le autorità cinesi hanno tenuto a rassicurare il resto del mondo come il nuovo organismo sia perfettamente allineato con la Global Governance Initiative, che rappresenta un insieme di principi non-occidentali promossi dal leader supremo Xi Jinping. E, se non bastasse, di recente il governatore di Hong Kong, John Lee, ha dichiarato che l’Iom è l’equivalente per Pechino della Corte internazionale di giustizia e di quella permanente per l’arbitraggio che ha sede all’Aja, quest’ultima invisa alla Cina per aver adottato decisioni a lei sfavorevoli sui contenziosi internazionali che riguardano il Mare cinese meridionale. Il tutto si inserisce perfettamente nella strategia di “cinesizzazione” di Hong Kong, per portarsi ad anni luce di distanza rispetto al modello socio-economico e politico precedente al 1997, che avrebbe prodotto, a dire di esponenti filo cinesi dell’Isola, solo una disfunzionale demagogia.
Ma poiché, come sempre, pecunia non olet, si continua da parte cinese a fare business as usual con le capitali finanziarie di Londra e New York, offrendo per di più a imprenditori e investitori esteri un sistema tutelato da Pechino per la mediazione delle dispute legali. Insomma, come fare e disfare gli affari in casa propria, senza dover rendere conto a fastidiosi controllori esterni. Sarà bene che l’Europa tenga bene a mente questa prospettiva nel prendere decisioni commerciali della massima importanza verso la Cina. E l’Occidente farebbe bene a prestare uno sguardo più attento alle mosse cinesi in Medio Oriente, che offrono un perfetto esempio del nuovo ordine mondiale voluto da Pechino: in tale visione, infatti, Dubai rappresenta un modello perfetto di un hub finanziario che non è una democrazia occidentale. E questa, in fondo, è la fine della precedente globalizzazione, dato che la nuova nascerà come aggregazione più o meno spontanea dall’attuale frammentazione dei vecchi equilibri, in cui l’Occidente non è più egemone, obbligato a cedere il passo a soluzioni ibride come quelle del melting pot mercantile di Hong Kong, che fa affari con tutti senza stare a guardare tanto per il sottile. Però, la prima a non credere ai dividendi della pace (a seguito della sua “amicizia senza limiti” con il suo ingombrante vicino russo) è proprio la Cina stessa, che sta adottando il motto latino si vis pacem para bellum, avendo varato di recente il suo ultimo gioiello navale, la portaerei la Fujian, a propulsione convenzionale, di 80mila tonnellate per 300 metri di lunghezza, costata 7,2 miliardi di dollari. Si pensi al salto enorme di qualità fatto in trenta anni dalla Cina, che aveva acquistato la sua prima portaerei da Kiev, a seguito degli accordi di disarmo del 1994 garantiti da Usa, Russia e Uk.
Ci si potrebbe chiedere: a che cosa serve una portaerei dopo il disastro della flotta russa nel Mar Nero, colpita e quasi affondata dai droni marini ucraini, che hanno un autonomia di 800 chilometri come il temibile Magura? La risposta sta nel carattere di deterrenza che possiede una nave del genere, per la proiezione globale di potenza e per la conduzione di una politica muscolare, come quella adottata da Donald Trump nei confronti del Venezuela, spedendo la ultramoderna Uss Gerald Ford a propulsione nucleare (costata circa 13 miliardi di dollari) nelle acque dei Caraibi. Questo perché, oltre alle guerre commerciali, Pechino presuppone di fare benissimo anche quelle tradizionali, mettendo in campo la sua più avanzata tecnologia militare per contrastare il dominio statunitense nel “mare di casa propria” dell’indo-pacifico, in cui la Cina ha altre numerose dispute territoriali con i suoi vicini asiatici. Una moderna portaerei, pertanto, funziona da base aerea avanzata e serve a proteggere gli interessi economici globali di Pechino. Ora, la domanda è: quanto ci metteranno Giappone e Filippine a prendere le contromisure, costruendo (o acquistando) altrettante portaerei sul modello della Uss Gerald Ford?
di Maurizio Guaitoli