venerdì 7 novembre 2025
Per quasi ottant’anni il rapporto tra Israele e le democrazie occidentali è stato definito dalla solidarietà verso lo Stato ebraico, che era percepita come un dovere morale, eredità diretta della Shoah e garanzia di continuità storica dell’Occidente liberale. Oggi questo rapporto appare incrinato: le immagini provenienti da Gaza, le politiche di colonizzazione in Cisgiordania e il rifiuto, espresso più volte con nettezza dal Governo israeliano, di consentire la nascita di uno Stato palestinese anche dopo la sconfitta di Hamas, che potrebbe essere ormai prossima, hanno aperto una frattura senza precedenti fra Israele e una parte significativa delle opinioni pubbliche e delle classi dirigenti occidentali. Il cambiamento non è avvenuto di colpo. Negli ultimi vent’anni Israele aveva già cominciato a perdere parte del suo capitale simbolico di “piccola democrazia assediata”. Le guerre in Libano e a Gaza, le espansioni degli insediamenti in Cisgiordania e la progressiva trasformazione interna dello Stato ebraico, con il rafforzamento dei partiti religiosi e dei coloni e la crescente marginalizzazione dei laici, avevano incrinato l’immagine di Israele come baluardo democratico. Ma la guerra esplosa dopo il 7 ottobre 2023, con la devastazione della Striscia e le migliaia di morti civili palestinesi, ha prodotto uno shock politico e morale: la consolidata identificazione fra Israele e Occidente si è incrinata, lasciando emergere un dissenso che attraversa le società, i Governi e i partiti.
La prima linea di frattura è morale e simbolica. La memoria della Shoah, che per decenni aveva posto Israele in una posizione di eccezione etica, oggi non basta più a giustificare politicamente le sue scelte, perché una parte crescente delle società occidentali distingue sempre più nettamente tra ebraismo e Governo israeliano. Nelle università, nei media e nei movimenti civili si moltiplicano le critiche a quella che viene percepita come una politica di occupazione permanente e di punizione collettiva verso i palestinesi. In molte piazze europee e americane le manifestazioni pro-palestinesi raccolgono numeri che sarebbero stati impensabili solo dieci anni fa, segno di un mutamento profondo nell’immaginario collettivo. Al tempo stesso, però, questo spostamento di percezione si accompagna a un aumento preoccupante di episodi di antisemitismo, segno che, come sempre nella storia europea, la distinzione fra critica politica e pregiudizio religioso è fragile e continuamente violata. Il secondo livello di mutamento riguarda le élite politiche. Se nei decenni passati Israele godeva di un sostegno bipartisan quasi incondizionato, oggi anche nei Governi occidentali emergono distinguo e tensioni. L’Amministrazione Biden, pur restando formalmente fedele all’alleanza storica con Israele, ha più volte richiamato Benjamin Netanyahu sulla necessità di limitare le operazioni militari a Gaza, senza peraltro saper suggerire valide alternative per consentire a Israele di raggiungere il legittimo obiettivo di scardinare il potere di Hamas dalla Striscia. La Casa Bianca, sotto pressione interna da parte dell’ala progressista del Partito democratico e delle comunità musulmane americane, ha anche esortato il Governo israeliano a riaprire la prospettiva di uno Stato palestinese, ma con scarso successo, e si è trovata così costretta a dovere gestire una posizione di equilibrio precario tra la tradizionale solidarietà strategica e politica allo Stato ebraico e la protesta crescente dell’opinione pubblica di fronte all’elevato numero di vittime civili.
Neppure l’Amministrazione Trump, che sembrava avere spostato l’asse della politica americana su posizioni apertamente filo-israeliane, è estranea a questa logica di ambivalenza. Trump aveva riconosciuto Gerusalemme come capitale ebraica e appoggiato gli Accordi di Abramo, ma la sua visione, essenzialmente volta a realizzare un Medio Oriente ordinato intorno a equilibri di potere piuttosto che a principi etici e politici, si sta rivelando a sua volta precaria. Con la recente liberazione degli ostaggi israeliani e dei detenuti palestinesi il suo pragmatismo sembra aver ottenuto successo, lasciando in eredità a Israele un consenso diplomatico più ampio nel mondo arabo, ma la guerra di Gaza non è ancora finita: Hamas è ancora al potere e lo sta esercitando nel modo spietato che gli è consueto, vessando, massacrando e torturando i palestinesi che gli si oppongono. La questione palestinese rimane così al centro del dibattito internazionale, da cui emergono, almeno per il momento, i limiti di una politica basata solo su accordi economici e dissuasione militare. In Europa, gli esiti di tale dibattito sono contrastanti. Paesi come Spagna, Irlanda e Norvegia hanno riconosciuto formalmente lo Stato di Palestina, scelta che fino a pochi anni fa sarebbe stata considerata un gesto ostile verso Israele. In Germania, dove la “responsabilità storica” verso gli ebrei è parte integrante dell’identità nazionale, il sostegno politico rimane solido, ma l’opinione pubblica è sempre più divisa. In Francia e nel Regno Unito la sinistra e i movimenti giovanili sono quasi unanimemente critici verso Israele, mentre le destre oscillano tra il sostegno ideologico “all’Occidente cristiano” e la cautela diplomatica.
Anche in Italia si avverte un crescente disagio, testimoniato dal linguaggio più prudente adottato dal Governo e dalle divisioni interne all’opinione pubblica. Ma soprattutto, e si tratta dell’aspetto più inquietante, parallelamente a questa sollevazione anti-israeliana c’è un’ondata antisemita che sta attraversando – con tutto il mondo occidentale, ma forse in modo ancor più marcato – anche il nostro Paese, le sue Università, le sue strade e le sue piazze, minacciando gli ebrei, interdicendogli l’accesso a luoghi pubblici e impedendo di parlare a coloro che cercano di prenderne le difese, come recentemente avvenuto all’Università Ca’ Foscari di Venezia a Emanuele Fiano. Una volta che Hamas sarà stato definitivamente sconfitto, evento che costituisce una precondizione per qualsiasi possibile pace futura, il nodo politico da sciogliere per poter far fronte sia al diffuso risentimento verso Israele sia a questa pericolosa deriva antisemita sarà quello della nascita di uno Stato palestinese: il rifiuto di accettare, anche solo in prospettiva, la nascita di tale Stato, anche quando disposto a riconoscere il diritto di esistere di Israele, sta infatti diventando ogni giorno uno spartiacque sempre più dirimente. La convinzione, ribadita da Netanyahu e condivisa dalla sua maggioranza, che un’entità palestinese autonoma costituirebbe una minaccia permanente per Israele, non solo contrasta sempre più con la visione americana ed europea di una “soluzione a due Stati” come unica via per la pace, ma muove da una premessa che non è affatto evidente: ovvero che l’esistenza di uno Stato palestinese disposto a riconoscere il diritto di esistere di Israele possa costituire un pericolo maggiore di quello rappresentato dalla sua assenza, e cioè da un popolo senza Stato che ne rivendica uno e che per ottenerlo si sente in diritto di usare, anche in virtù della complicità di altri Paesi arabi e di buona parte della comunità internazionale, l’arma del terrorismo in modo sistematico.
Intorno a quest’alternativa e a questa diversa lettura delle possibili conseguenze della nascita di uno Stato palestinese, non ruota solo ogni possibile scelta tattica nell’attuale frangente del conflitto, ma ogni possibile visione strategica: Israele chiede sicurezza assoluta prima di ogni concessione politica, ma non è affatto evidente che la mancata nascita di uno Stato palestinese possa garantirla, mentre l’Occidente teme che l’assenza di una prospettiva statale per i palestinesi condanni la regione a un ciclo infinito di violenza. La guerra di Gaza, dunque, non è solo un conflitto territoriale, ma anche un punto di svolta nel rapporto fra Israele e l’Occidente. Essa ha costretto le democrazie occidentali a misurarsi con la contraddizione fra la loro eredità morale e i limiti della realpolitik. Difendere Israele significa, per molti Governi, difendere il suo diritto all’autodifesa, che tuttavia non è considerato più tale da buona parte dei cittadini che quei Governi rappresentano. Secondo quei cittadini Israele avrebbe minato, con il comportamento del suo esercito a Gaza, la credibilità universale nei diritti umani, fondamento stesso dell’identità occidentale. Eppure, nessuno di coloro che denunciano il mancato rispetto di quei diritti saprebbe indicare in quale modo, nelle circostanze che caratterizzano il presente conflitto, si sarebbero potuti garantire quei diritti senza costringere Israele a rinunciare ad esercitare di fatto il proprio diritto all’autodifesa. E non si tratterebbe di una rinuncia priva di conseguenze, perché Hamas – forse bisognerebbe ricordarlo più spesso – non solo è un’organizzazione terrorista che ha come suo primo obiettivo la distruzione di Israele, ma è anche un’organizzazione criminale che esercita il proprio potere massacrando e torturando con modalità tipicamente naziste tutti i palestinesi che dissentono dalle sue posizioni e dai suoi metodi.
Eppure, nonostante quest’evidenza, le immagini della guerra e la propaganda dello stesso Hamas e delle organizzazioni ad esso affiliate sono riuscite a incrinare il consenso a Israele e a dividere il fronte democratico in fazioni reciprocamente ostili, che hanno trovato la loro ragion d’essere in una differenza cruciale: da una parte ci sono quelli che ritengono che si possa accusare Israele di ogni nefandezza pur senza disporre di un’alternativa realistica per garantire il suo diritto all’autodifesa; dall’altra coloro che, in assenza di tale alternativa, sono invece molto più cauti nell’emettere gravi giudizi di condanna. Resta, comunque, una domanda aperta: quanto di questo mutamento nei sentimenti e nei giudizi verso lo Stato ebraico sarà destinato a durare? Esso rimarrà in modo permanente oppure Israele potrà un giorno tornare ad essere un riferimento e un esempio per la maggior parte dei popoli e dei cittadini autenticamente democratici? Probabilmente, una parte dell’Occidente, soprattutto politica e diplomatica, continuerà a considerarlo un alleato indispensabile, tanto sul piano politico quanto su quello strategico e tecnologico, anche se il diffuso consenso morale che per decenni aveva accompagnato la causa israeliana sembra perduto.
Non si può tuttavia escludere che un giorno, quando verranno smascherate le menzogne di Hamas e saranno denunciati suoi reiterati crimini – e non solo verso il popolo israeliano, ma anche verso quello palestinese – la posizione di Israele possa essere riconsiderata. Nel frattempo, molti Governi saranno chiamati a fare i conti con le proprie scelte, sia per l’atteggiamento punitivo che hanno talora assunto verso lo Stato ebraico – per esempio riconoscendo uno Stato palestinese prima della sconfitta di Hamas – sia per la debolezza e la transigenza che hanno per troppo tempo dimostrato verso il regime di Vladimir Putin. Se oggi il dittatore del Cremlino può continuare a massacrare il popolo ucraino, e se Israele non è più considerato una proiezione avanzata della democrazia in un’area geografica che le è da sempre storicamente ostile, entrambe queste circostanze riflettono infatti, come uno specchio deformante, le contraddizioni irrisolte delle stesse democrazie occidentali. In particolare, chi non ha compreso o ha finto di non comprendere, oltre alle ragioni dell’Ucraina, anche quelle d’Israele, si dovrà confrontare con gli esiti delle proprie ipocrisie e delle proprie posizioni di comodo, perché dopo il 24 febbraio 2022 e dopo il 7 ottobre 2023 nulla sarà più come prima. L’ondata antisemita che sta attraversando l’Occidente democratico rischia infatti di trasformarsi in benzina sul fuoco della sua islamizzazione, rivelandosi così per quello che è: non solo il frutto di un atavico risentimento verso lo Stato ebraico, ma anche il tentativo di sfruttare un’occasione preziosa per cercare di rovesciare dall’interno le democrazie occidentali, un tentativo che ovviamente non è sgradito al dittatore del Cremlino.
di Gustavo Micheletti