lunedì 3 novembre 2025
C’è una guerra che non si vede, ma che attraversa l’Europa ogni giorno, insinuandosi nelle sue città, nelle sue reti, nei suoi mercati. Non ha trincee né fronti, non si combatte con i carri armati ma con il denaro, la disinformazione e, sempre più spesso, con la criminalità. È la guerra ibrida, la nuova forma di conflitto che la Russia conduce contro l’Occidente, una guerra che non mira a conquistare territori ma a erodere la fiducia, destabilizzare le società, confondere la percezione della sicurezza. Il potere di Mosca ha compreso che per indebolire un nemico non serve necessariamente invadere, basta corrompere, infiltrare, sabotare. E per farlo si serve di un arsenale che va dal cyberspazio alle prigioni, dai contrabbandieri ai social network. La criminalità è diventata una componente strutturale della politica estera russa, un’estensione dei servizi segreti travestita da economia sommersa. Negli ultimi anni, decine di episodi in tutta Europa – incendi dolosi, sabotaggi di infrastrutture, aggressioni, atti di vandalismo politico – hanno mostrato lo stesso schema: piccoli criminali, spesso originari dell’ex spazio sovietico, reclutati online, pagati somme modeste e incaricati di azioni apparentemente isolate che, messe insieme, compongono un mosaico di destabilizzazione. È il ritorno di un modello che unisce spie e gangster, eredità della Russia postsovietica in cui il confine tra Stato e malavita si è dissolto.
L’intelligence e la criminalità organizzata operano ormai come due facce della stessa medaglia: una fornisce copertura e protezione, l’altra esegue, traffica, contamina, compra silenzi. Da questo intreccio nasce quella che potremmo definire la casta invisibile del potere, la rete di funzionari, oligarchi e criminali che alimenta la ricchezza e la resilienza del sistema putiniano anche sotto sanzioni. Nel corso degli anni, questa alleanza si è trasformata in una rete globale di interessi che abbraccia finanza, energia, logistica e tecnologia. Le rotte del contrabbando diventano autostrade parallele su cui viaggiano merci, armi e componenti elettronici destinati a sostenere lo sforzo bellico russo, ma anche capitali e informazioni sensibili. Le sanzioni, che dovrebbero isolare Mosca, vengono sistematicamente aggirate e sfruttate da intermediari, società di comodo e consulenti pronti a chiudere un occhio. La flotta ombra di petroliere che naviga con bandiere di comodo e registri falsificati aggira i divieti internazionali e finanzia una guerra che si combatte non solo in Ucraina ma anche nel cuore dell’Europa. Ogni carico illegale, ogni transazione opaca, ogni hackeraggio riuscito mina un pezzo della sicurezza collettiva europea. È una guerra che non ha bisogno di esplosivi, perché agisce come un veleno lento, che paralizza il sistema immunitario delle democrazie. Il nuovo volto di questa guerra è popolato da figure marginali: rifugiati disperati, ex detenuti, piccoli spacciatori, hooligan reclutati nei canali Telegram o attraverso vecchi contatti criminali.
A volte non sanno nemmeno per chi agiscono, altre volte lo sanno ma non importa: contano i soldi. Per qualcuno bastano cinquanta euro per imbrattare un monumento o incendiare un’auto con targa ucraina, per altri il compenso arriva a diecimila per un sabotaggio o un incendio doloso. Sono “agenti usa e getta”, sacrificabili e sostituibili, che permettono a Mosca di mantenere la negazione plausibile, quella zona grigia dove tutto è sospetto ma nulla è provato. Dietro di loro, a un livello appena superiore, agiscono mediatori più esperti: ex militari, trafficanti, imprenditori senza scrupoli, uomini abituati a muoversi tra i margini della legalità. È in questo ambiente grigio che si costruisce la nuova infrastruttura della guerra non dichiarata. L’Europa fatica a riconoscere la portata del fenomeno. Abituata a concepire la sicurezza come difesa militare o controllo dei confini, non ha ancora sviluppato pienamente gli strumenti per contrastare la guerra ibrida che si combatte nel suo spazio interno. Ogni atto criminale, ogni fake news, ogni sabotaggio isolato viene percepito come un fatto di cronaca, raramente come parte di un disegno strategico. Eppure è proprio nella frammentazione, nella somma di piccoli gesti, che si misura l’efficacia di questa nuova forma di aggressione. Mosca non ha bisogno di vincere battaglie: le basta farci perdere tempo, risorse, coesione. Dietro questa strategia c’è una visione di lungo periodo che si nutre di caos e di ambiguità.
Ogni incendio, ogni guasto tecnico, ogni violazione informatica può essere un incidente, oppure no. L’obiettivo non è tanto colpire fisicamente, quanto generare sfiducia, alimentare il sospetto che lo Stato non sia in grado di proteggere i propri cittadini. È la psicologia della paura che diventa strumento politico. Laddove l’Europa predica trasparenza e stato di diritto, la Russia risponde con l’opacità, con la manipolazione, con la capacità di sfruttare le zone d’ombra della libertà. Non è un caso che il confine tra criminalità e politica si faccia sempre più sottile anche all’interno dei Paesi europei. In molte capitali, la penetrazione economica russa ha lasciato tracce profonde: investimenti immobiliari sospetti, società di facciata, donazioni a fondazioni e partiti, consulenze che mascherano attività di intelligence. Tutto legale, o quasi. È la versione sofisticata dello stesso meccanismo che arruola i piccoli criminali: corrompere il sistema dall’interno, insinuarsi nei suoi vuoti, approfittare delle sue debolezze. L’Europa deve accettare che la guerra del XXI secolo non si combatte solo con i missili ma anche con le valigette di contanti, con i bot che manipolano le opinioni, con i delinquenti di quartiere trasformati in mercenari inconsapevoli. È una guerra che non ha divise né confini, ma che attraversa le nostre strade e i nostri schermi. Per difendersi non bastano gli eserciti: servono polizie addestrate, magistrature coordinate, banche capaci di tracciare i flussi sospetti, cittadini informati. Serve una nuova cultura della sicurezza che unisca la vigilanza contro la criminalità alla consapevolezza politica.
Freedom is not free (La libertà non è gratuita).
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
di Renato Caputo (*)