Narcolandia: il continente delle droghe

martedì 28 ottobre 2025


Quale è oggi il “continente delle droghe”? Una sorta di cintura bianca della cocaina che collega Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, ai quali si salda a Nord il Messico, paradiso tra l’altro dei traffici interfrontalieri di fentanyl, la droga sintetica che infesta gli Stati Uniti d’America e i cui precursori sono fabbricati in Cina, per poi essere esportati illegalmente verso i Paesi sudamericani della costa. Questi ultimi ospitano da decenni organizzazioni criminali che gestiscono sia la produzione su larga scala, che il traffico internazionale di stupefacenti.

In particolare, la Colombia rappresenta da sempre una delle aree di produzione di coca più significative, per la presenza delle Farc e di altre milizie rivoluzionarie che si finanziano attraverso il traffico di cocaina, per sostenere le loro attività di guerriglia antigovernativa. All’America di Donald Trump, che intende riprendere l’iniziativa per fermare i cartelli del narcotraffico, non rimane altra strada dell’intervento militare diretto, per distruggere le basi e i laboratori a terra dei trafficanti, colpendo (nel caso del Venezuela) le barche veloci che trasportano i carichi verso i porti di imbarco del Mar dei Caraibi. Trump, in tal senso, può agire in deroga all’autorizzazione del Congresso, avendo equiparato i cartelli dei narcos a organizzazioni terroristiche internazionali, come dovrebbe fare l’Europa nei confronti dei trafficanti di esseri umani, in modo da colpirne le basi e i luoghi di imbarco ovunque essi si trovino. Il problema di Trump, però, è di doversela vedere con la nuova industria dei narcotici, molto più innovativa e più nebulosa che mai.

Le stime ufficiali dicono che in tutto il mondo le vittime di overdose da cocaina e oppioidi sintetici, compreso un mix tra questi ultimi due, sono all’incirca 600mila all’anno, e non meno di 100mila riguardano cittadini americani: il che equivale a dieci volte il tasso medio di decessi per overdose nel resto del mondo. Del resto, come dice un saggio proverbio, non si può fermare il vento con le mani, dato che la cocaina venduta sul mercato all’ingrosso vale 120 volte i suoi costi di fabbricazione. Margini di guadagno che, nel caso degli oppioidi sintetici come il fentalyn, arrivano a moltiplicarsi per mille: ovvero, per ogni dollaro investito se ne ricavano mille, una volta venduto il prodotto sui mercati all’ingrosso. Ed è così che questa enorme massa di denaro liquido entra in circolo e genera ogni tipo di corruzione all’interno di Stati praticamente falliti, portando alla rovina le prospettive economiche di decine di milioni di loro cittadini. E, malgrado le misure repressive in atto, i consumi di droga continuano a crescere in Europa come in Africa e in Asia. Pertanto, non saranno le cannoniere e i missili della Us-Navy a poter mettere finalmente ordine a questo mercato della morte, in cui ad arricchirsi sono Capi di Stato senza scrupoli come Nicolás Maduro e Gustavo Petro, nemici giurati dell’America trumpiana.

Occorre dire, però, che sono definitivamente tramontati i tempi dei padrini mondiali della droga sul modello di Pablo Escobar, caratterizzato da una linea di comando molto verticalizzata che gestiva l’intera catena, partendo dalle piantagioni di coca nelle Ande, per arrivare al consumo al dettaglio nelle strade di Miami. Oggi, tutto ciò è stato sostituito da un network particolarmente fluido di subcontractor specializzati, dove la cosa funziona pressappoco come segue, in base all’analisi del settimanale The Economist.

I proprietari della droga restano i boss dei grandi cartelli che operano e controllano solo una parte della catena di produzione-distribuzione. Il resto viene subappaltato a esperti di logistica, piccola delinquenza locale, chimici, brokers che contrattano l’acquisto dei precursori, finanzieri digitali che trattano criptovalute. Questo modello diffuso e outsourced (esternalizzato) ha come caratteristica fondamentale di essere adattativo e resiliente, anche perché la sua specializzazione favorisce l’innovazione e uno degli esempi in tal senso è l’uso di narco-sottomarini che attraversano il Pacifico imbottiti di carichi di droga. A questo punto è chiaro come sia agevole cambiare rotta: se una via è bloccata, le gang semplicemente fanno ricorso a un diverso subcontractor dislocato da un’altra parte, con il bel risultato di diffondere un po’ ovunque le radici del traffico e della violenza. Tanto è vero che Paesi finora ritenuti immuni dal flagello si sono ritrovati improvvisamente al centro della tempesta, come l’Uruguay, in cui è stata presa di mira persino l’abitazione del Procuratore generale. La violenza delle gang legate alla droga è arrivata a scuotere città portuali europee come Antwerp, mentre nel Pacifico, che rappresenta la maggiore via di espansione del traffico verso l’Asia, il Governo delle Isole Fiji ha dovuto fa ricorso all’esercito per la lotta agli spacciatori. Il modo con cui si stratificano i contratti (tecnica che indica una serie di contratti che si sovrappongono o si susseguono) rende molto più facile coinvolgere nei traffici sia politici, sia uomini d’affari, che giocano così il ruolo di “narcos invisibili”: per uno che viene scoperto, ne restano molti di più ancora da scoprire. Come ovviare, allora, a questo incontenibile flagello?

E qui arriva la risposta dell’Economist che non ci si aspetterebbe mai: Legalizzare le droghe, seguendo una scia perfettamente “pannelliana”, sia nelle motivazioni, sia nella costruzione di un’etica della legalizzazione, in cui l’obiettivo principale è quello di annullare gli scandalosi margini di arricchimento di chi produce e traffica in sostanze stupefacenti. Il problema annoso, però, è sempre quello: che tipo di sostanza è lecito legalizzare? Oggi, gli oppioidi di sintesi e le loro varianti si allargano a macchia d’olio, per cui l’acquisto, in funzione della loro pericolosità, non potrà che avvenire sul mercato nero, mentre invece per le sostanze naturali come la cocaina ha più senso tentare la via della legalizzazione, anche se anche in questo caso le sostanze tagliate, che hanno effetti più additivi, non sarà ugualmente possibile sottoporle a nessun tipo di regolazione. Quindi, piuttosto che affondare barche, sostiene The Economist, sarà molto meglio e più produttivo cercare di smantellare le reti del traffico attraverso l’uso dell’intelligence di tipo humint e sigint, in cui la prima prevede l’impiego di risorse umane e la seconda ogni tipo di cyber technology, per l’intercettazione delle comunicazioni.

Anche perché ai trafficanti importa poco perdere qualche motoscafo d’altura, ma moltissimi danni può procurare loro il sequestro dei beni e dei conti correnti. Maggiori saranno gli arresti dei “white collar” (funzionari e impiegati insospettabili), tanto più oneroso sarà per loro condurre il malaffare, soprattutto se si agirà contemporaneamente con la prevenzione sul versante di riduzione della domanda. Un mestiere questo dell’antidroga, da affidare non ai militari, bensì a funzionari dell’intelligence, forze di polizia e procuratori. Sì, va bene: però, come la mettiamo con Paesi come il Perù, in cui il Parlamento (democratico!) ha adottato norme a protezione dei criminali e per rendere più difficili le attività di investigazione?


di Maurizio Guaitoli